In un’epoca di autocelebrazioni dove si costruiscono fortezze basate sull’immagine vincente del personaggio pubblico, da palcoscenico, che non deve chiedere mai, che non invecchia, che appare sempre in perfetta forma, c’è una voce stonata e altisonante che fa riflettere. Un’implorazione di straordinaria vitalità apparsa in questi giorni sulla stampa. “Non voglio morire, non voglio morire, ho paura che i miei figli non si ricorderanno di me”. Sono le parole, tra i singhiozzi, del famoso rapper Fedez allo psicologo nel giorno in cui ha scoperto di avere un tumore al pancreas. Qualcosa di straziante e umanissimo che è stato pubblicato dallo stesso artista nelle stories di Instagram. Un confronto serrato con il destino che minaccia duramente la persona, una come tante, e la mette alla prova attraverso una grave malattia, che è sempre un’incognita e che per questo spaventa terribilmente. La malattia si presenta inaspettata, una nebulosa che isola, che rende più deboli fisicamente e psicologicamente. Il primo approccio è il bisogno di uscire allo scoperto. Fedez ha mostrato energia, impeto, ribellione nel momento peggiore. Ribellione, in questi casi, è il vocabolo più intenso. Una parola adirata, fragile. “Non voglio morire”, dice Fedez, che tra i suoi avi annovera un brigante, un guerrigliero capace anche di atti generosi e al quale sono stati dedicati acrostici e poesie. Fedez ha aggiunto di sentire il bisogno di “una carezza pubblica”. Non lo ha fatto per cercare facile pubblicità come qualche vigliacco ha sostenuto, ma per la disperazione di perdere tutto in un colpo solo. E’ vero, la confessione è un modo per esorcizzare il male, per allontanarlo. Un mezzo istintivo, primitivo, che non si riesce a controllare. Ho provato qualcosa di simile quando ero ragazzino, come i miei lettori sanno. Anch’io ho urlato che non volevo morire. Allora non esistevano i social e i cellulari per comunicare con il mondo. Non c’era altro modo per esprimere il proprio dramma interiore che scriverlo in lettere (che non ho mai spedito), o dicendo le stesse cose di Fedez in una camerata d’ospedale, a mia madre, a mio padre, ai parenti. Solo chi ha vissuto un’esperienza simile può capirla. Solo chi ha toccato con mano la morte sa che miscela di sentimenti contrastanti si aggrovigliano: sconforto, oppressione, grigiore. Demoralizzazione e angoscia. Ma anche l’esatto opposto: coraggio, spavalderia, avventatezza. L’assolutezza della vita è un bivio, perché non c’è alternativa. Si vive o si muore. Sto dalla parte di Fedez, ingiustamente accusato di narcisismo, perché ci mette di fronte ad una verità ultima, dalla quale non si torna indietro. Arthur Schopenhauer sosteneva: “Il grande dolore che ci provoca la morte di un amico deriva dalla consapevolezza che in ogni individuo v’è qualcosa che è solo suo, e che va perduto per sempre”. Fedez ha affermato di non voler perdere questa sfida, di non voler essere dimenticato dai figli, dai familiari, dagli estimatori. Del resto non si può chiedere di più dalla vita che non morire. Prolungare l’esistenza guarendo, tornando alla normalità, alle abitudini. E’ una lotta perpetua quella di Fedez, che ci riguarda tutti. L’eternità può attendere, come il nulla, come l’incognita della morte e il dopo, perché non c’è mai un lieto morire, specie se si è giovani. Sarebbe disumano, come recita il titolo di una canzone di Fedez, filantropico che durante la pandemia ha sostenuto più organizzazioni di volontariato per dire no alla morte.
Alessandro Moscè