“Diventeremo migliori”, “andrà tutto bene”, “aspettiamo un nuovo Rinascimento”, “cambierà il mondo”. Sono frasi che sentiamo un po’ dappertutto, in questi giorni che seguono il lockdown (un vocabolo ormai italianizzato). In realtà il Coronavirus ha appiattito l’Italia rendendola sempre più smarrita. Pensare che questa esperienza possa renderci persone migliori, sembra un inno all’ipocrisia. Risultiamo il paese con il secondo debito pubblico d’Europa, con la crescita più bassa e con una delle produttività stesse più basse del continente. Quando si fermerà la diffusione del Covid 19, il settore economico avrà bisogno della collaborazione internazionale, che non è detto affatto che ci sarà. I disastrosi effetti sull’economia italiana si sono già evidenziati: 1.334 miliardi di euro di fatturato (il 41,4% del livello complessivo) in meno rispetto all’anno scorso. Un’azienda su dieci è a rischio fallimento, mentre più di 30.000 imprese hanno già chiuso i battenti. Il ritorno alla normalità resta un’incognita. Cosa significa, peraltro, tornare alla normalità? Il 22 maggio, sulle pagine di “Avvenire”, Alfonso Berardinelli si chiedeva: “La normalità prima della pandemia era così desiderabile e normale? Normale l‘uso dissennato delle risorse naturali e la distribuzione ingiusta della ricchezza? Normale la crescita obbligata dei consumi, gli sprechi, le scandalose disuguaglianze fra popoli e fra individui?”. Cosa cambierà dunque, dopo la fine della pandemia? Saremo più poveri, più cinici, più frustrati, più soli. Saremo in una condizione tale per cui si rischia la guerriglia civile, mancando i beni necessari per sopravvivere. Non solo nei paesi del terzo mondo, come venivano definiti una volta, ma anche nella nostra Italia. Sì, qui da noi, sotto le nostre case, nelle nostre piazze. Basta guardare i dati che ci vengono propinati impietosamente dai mass media. Ad aprile e a maggio 2020 sono state dimezzate le spese per il cibo e rinviate le spese per affitto e bollette. Quasi la metà di tutte le famiglie con bambini tra gli 8 e i 17 anni intervistate (44,7%) ha dovuto ridurre il consumo di carne e pesce (41,3%). I market sociali hanno sempre più richieste e la Caritas italiana, dislocata in ogni città, fatica ad accontentare il numero crescente di poveri che chiedono denaro, vestiario, lavoro, conforto. La miseria ci ha già raggiunti, nonostante continui il vizio italiano di affidare incarichi pubblici ai pensionati, di mantenere inalterate le posizioni di rendita e di non cercare tra le nuove generazioni il cambiamento innanzitutto di mentalità. La ridistribuzione del reddito perché i patrimoni non siano concentrati solo nelle mani di pochi, è una tra le soluzioni possibili, visto che le disuguaglianze sono progressivamente salite: i poveri sono sempre più poveri. Per il resto citiamo una battuta, o forse si trattava di una convinzione. “Solo i poveri conoscono il significato della vita; chi ha soldi e sicurezza può soltanto tirare a indovinare”. Lo disse Charles Bukowski.
Alessandro Moscè