Mario Dondero, marchigiano “importato” a Fermo, aveva un volto ossuto da artigiano. E non potrebbe essere definito, in effetti, che un manifattore della fotografia. La sua peculiarità era tutta nel sentirsi un uomo qualunque della strada che immortalava altri uomini, ma non casualmente. Fotoreporter bohemien, flâneur, affabulatore, viveur, “inafferrabile e ubiquo”, come lo consacrò il giornalista Ermanno Rea. Dondero ha inseguito la storia e l’ha rappresentata con acume negli eventi scavati tra spazio e tempo, nella gente affaccendata e non nell’anacronistica verità dei luoghi o dei paesaggi. Fotografo con un occhio al servizio degli umili, è stato detto. E’ venuto a mancare a 87 anni e sembra che l’ultimo desiderio esaudito sia stato quello di mangiare un pasto succulento in trattoria facendosi trasportare in ambulanza. Mario Dondero non amava gli abbellimenti, l’estetica, il cromatismo. Anzi, proprio perché la fotografia conserva un suo autonomo sviluppo rappresentativo, il banco e il nero gli consentiva di capire di più il protagonista dello scatto. E lo diceva apertamente, con quel suo portamento classico e umbratile. Era generoso e sempre a disposizione di chi cercava di interrogarlo affinché raccontasse il mondo che aveva attraversato da una postazione di primo piano. Nato a Milano nel 1928, ma di origini liguri, nel fotogiornalismo contemporaneo innestò un vero e proprio modo di essere. A Milano era legato al cosiddetto gruppo dei “Giamaicani”, i frequentatori del bar Giamaica dalla vita agre come Carlo Bavagnoli e Giulio Mulas, Dino Buzzati e Nanni Balestrini. Il trasferimento in Francia gli ha consentito di scattare una delle foto più celebri di sempre: il gruppo degli scrittori del Nouveau Roman, a Parigi nell’ottobre del 1959, presso la sede dell’Editions de Minuit. Davanti al suo obiettivo Nathalie Sarraute, Samuel Beckett, Alain Robbe-Grillet, Claude Mauriac, Claude Simon, Jerome Lindon, Robert Pinget, Claude Ollier. E quindi gli infiniti viaggi: il Marocco, l’Algeria, la Guinea, ma anche l’America Latina, Cuba, l’Urss, il Canada e l’Afghanistan. Marc Chagall lo allontanò dal suo appartamento perché Dondero non gli mostrò il tesserino da giornalista, ma è proprio il ritratto degli artisti che lo rese mitico: Francis Bacon, Giorgio De Chirico, Yves Montand, Orson Welles, Roman Polanski, Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir. Tra le sue personali più note, Parigi nel 2006, Bruxelles nel 2009 e Londra nel 2011. Lo conobbi ad Ancona in un incontro tra intellettuali organizzato dalla Regione Marche. Sedevamo uno al fianco dell’altro. In breve scoprimmo che la nostra passione comune era soprattutto il calcio. Il suo Genoa gli faceva battere il cuore come un bambino, mi sussurrò sorridendo, e ogni dieci minuti voleva sapere il risultato della domenica nell’orario delle partite. Ricordo una frase sibillina: “La fotografia non conosce ideologia”. Ronald Reagan e Michail Gorbačëv non gli fecero un grande effetto. Lo ammetteva con un candore da bambino. Dondero era mite, riservato, buono, come riconobbe Pier Paolo Pasolini che fu inquadrato davanti al volto innamorato di sua madre nella casa romana dove, negli anni Sessanta, si era trasferito da poco. Sembra ancora di vederlo imbracciare la fedele Leica, a sorpresa, e guardare nell’obiettivo riferendo a bassa voce un aneddoto. Per esempio quando si trovò a parlare nientemeno che di allevamenti bovini con Fidel Castro dentro un ascensore, e non rimase affatto convinto dalle esternazioni del rivoluzionario cubano.
Alessandro Moscè