QUELL’AFFETTO CHE ERA RIMASTO

Sono rimasto sorpreso dalla morte, volontaria, di Marco Prato, nel carcere di Velletri. Il suicidio è avvenuto all’una e dieci della scorsa notte nel penitenziario dove il giovane era stato trasferito a marzo da quello romano di Regina Coeli, in attesa di giudizio. Il pierre, come ricorderete finito in cella con Manuel Foffo per l’atroce delitto di Luca Varani, si è recato in bagno, ha infilato la testa in un sacchetto di plastica e ha respirato il gas contenuto nella bombola per cucinare in dotazione ai detenuti. Il suo compagno di cella stava dormendo e non si è accorto di nulla. Prato il giorno prima aveva tenuto un colloquio con i familiari senza dare alcun segno di disagio. Dopo la cena ha finto di mettersi a dormire, si è alzato e chiuso in bagno dove si è stordito con il gas. Quando lo hanno rinvenuto era ancora in vita ma ogni tentativo di salvarlo è risultato inutile. Ancora una volta la riflessione da fare è imperniata sulle condizioni delle carceri italiane, dove in pochi metri quadrati si consente che i detenuti abbiano i mezzi per togliersi la vita. Nessuno che vigilasse, nessuno che si accertasse quale fosse lo stato psicologico di Prato alla vigilia del processo in cui sarebbe stato, con ogni probabilità, condannato. Nessuno che avesse ascoltato il suo grido ripetuto: “Non sono un mostro, non sono un aguzzino”. E poi lo spostamento a Velletri, dove si sentiva emarginato, più maledetto di prima. Ma c’è un sfondo di tenerezza in questa buia, malata vicenda. Qualcuno non lo aveva dimenticato, né ripudiato: la sconosciuta Marina Sambiagio, l’ex insegnante di liceo di Marco Prato. Era  in contatto con l’omicida, lo studente più difficile da plasmare, per questo il più amato. Intelligente e indolente, umorale e creativo. “Mi era rimasto nel cuore”, dice candidamente la professoressa del Liceo Giulio Cesare di Roma alla quale Prato si era legato e con la quale si confidava spesso. “All’esame di Stato qualcuno gli aveva lasciato la versione di greco in bagno.  Mi piazzai davanti al suo banco e non lo feci copiare. Mi ringraziò”. Forse è stata solo lei a capirlo, a proteggerlo, a dirgli parole affettuose, a cercare di redimerlo e a consolarlo quando era in carcere a Regina Coeli. L’unica ad abbracciarlo. La professoressa lo amava perché era fragile, ma leggeva Kant, si impegnava. Ora Marina Sambiagio piange per l’alunno strano, inquieto, infelice, come fosse la sua seconda madre. Scriveva Roland Barthes in Frammenti di un discorso amoroso (1977): “Tenerezza non è solo bisogno di tenerezza, ma anche bisogno di essere tenero con l’altro. Ci rinchiudiamo in una bontà vicendevole, ci maternizziamo reciprocamente, risaliamo alla radice di ogni relazione, là dove bisogno e desiderio si congiungono”.

Alessandro Moscè

 

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