La realtà e la fiction. Fin dove la letteratura racconta storie ispirate da fatti realmente accaduti? Gli scrittori hanno il dovere dell’onestà, scrive Emmanuel Carrère su “Robinson”, l’inserto di “Repubblica” di domenica scorsa. Gli fa eco David Grossman, per cui l’arte di raccontare la realtà diventa sostanzialmente simbolica. Tempo fa scrivemmo che la crisi economica e occupazionale, e la recessione italiana, non erano finite sui romanzi, che la stessa politica restava sostanzialmente avulsa dal mondo della narrativa. Ricordo Il Duca di Mantova di Franco Cordelli, edito nel 2004, come un romanzo in controtendenza, ma un anche come un caso isolato. Il tema era rappresentato dall’ascesa berlusconiana e da una deriva autoritaria. La letteratura resta ai margini non della realtà, ma della cronaca. Avrebbe senso occuparsi di Trump e Putin, quando i giornali ne certificano quotidianamente dichiarazioni, intenti, proclami, programmi, vizi privati e pubbliche virtù? La linea di demarcazione tra la politica e la letteratura è questa: non sconfinare in un altro ambito, rimanerne fuori, pur contestualizzando un’epoca. Scrive proprio Grossman: “La letteratura suscita nel lettore l’impulso di osservare un individuo, di cercare di capirlo dentro, di studiare il suo lessico interiore, i suoi valori, i suoi errori, le sue paure, i suoi momenti di grandezza”. Lo scrittore israeliano fa riferimento ad una cultura di massa che può trasformarsi in unicità e individualismo. Ma allora, la letteratura ha un compito specifico nella giostra globale, nel populismo del terzo millennio? Come porsi di fronte ai principi della ragione, della giustizia sociale, delle diseguaglianze generazionali, della povertà, dell’immigrazione? Credo che li debba ignorare come dato empirico, ma può occuparsene attraverso la caratterizzazione dei personaggi che singolarmente entrano nelle problematiche dell’Italia. Il modello da adottare, in tal senso, è il reportage. Penso ad Angelo Ferracuti (Addio. Il romanzo della fine del lavoro, Chiarelettere 2016) e a Melania Mazzucco (Io sono con te. Storia di Brigitte, Einaudi 2016). Resta sempre la tentazione, come sostiene provocatoriamente l’amico Paolo Di Paolo su L’Espresso”, di raccontare Matteo Renzi. Sì, ma come farlo? Sotto forma epica o fanta-letteraria? Come tentativo di capire la lotta tra le nuove leve e la vecchia guardia, degli imprudenti contri i temporeggiatori? Se Berlusconi è stata una gigantesca macchina romanzesca, narrarlo determinava un’oggettiva difficoltà. Si stava già dicendo tutto. Forse la soluzione sarebbe di inventare il futuro di Renzi, di vederlo non più rottamatore del 2017, ma invecchiato, senza alcun potere. O, paradossalmente, salito al Quirinale a novant’anni, in precarie condizioni fisiche. O impazzito e rinchiuso in un istituto psichiatrico. Oppure tornato nell’anonimato, mentre sulle sponde dell’Arno chiacchiera con Donald Trump che ha abbandonato la Casa Bianca, e gli propone di andare a caccia di cinghiali sui colli toscani, o a pesca di trote in un torrente dalle parti di Firenze. Cioè fare di Renzi una maschera carnevalesca camuffandolo oltre il presente, al di là di un adesso usurato dai cambi stagione della politica che sono rapidi più dei cicli naturali dell’inverno e della primavera.
Alessandro Moscè