ANCHE LA SCIENZA PUO’ PERDERE

La natura sconfigge la scienza, ne devia il corso, la mette di fronte a fatti imponderabili, ad uno squarcio per l’umanità, al tempo che diventa spirale, che angustia e reclude. Non viene sconfitta la storia, un’ideologia, un assetto:  è la natura, benigna e matrigna insieme, che neutralizza la scienza. Possiamo dirlo quando ci accorgiamo che la verifica delle cure approntate contro il Coronavirus si misura sul parere, molto spesso discorde, degli esperti. Assistiamo ad una successione di smentite sulla funzionalità di un noto antinfiammatorio, sul farmaco utilizzato in Giappone per curare l’influenza e sul tocilizumab, la molecola pensata per combattere l’artrite reumatoide. Non esiste un vaccino e un’eventuale sperimentazione durerà almeno un anno. La scienza non è esatta e nessuno può rivendicarne il primato, mai come adesso. Un ventilatore polmonare, contro una sindrome respiratoria acuta, conta più di un medicinale qualsiasi. Ci sembra una triste verità, una resa. Un amico medico che è in prima linea per l’annientamento del Covid 19, mi dice, provocatoriamente, se so come si costruisce un mattone. Rimango titubante. Il materiale si ricava dall’argilla e si fa cuocere in un forno. Ma alla fabbricazione del mattone sono adatti anche i suoli composti di sabbia e ghiaia in quantità intorno al 61%, il limo in misura del 16% circa e il 3% è un composto di materie organiche. Questo perché se immettiamo troppa argilla si formeranno fessure durante l’essicazione del mattone. Se c’è un eccesso di sabbia la coesione è minore e il mattone rischia di sfaldarsi, mentre molta quantità di materie organiche provoca porosità. La stessa cosa avviene in medicina. Si prova, si testa, si verifica, proprio come fanno nelle fornaci. I medici sono artigiani in corsia e i ricercatori clinici degli sperimentatori in laboratorio. Ma nessuno sa come guidare sapientemente e infallibilmente la scienza, né tantomeno la natura, i cui processi sono spesso sconosciuti e potrebbero restarlo per un tempo indeterminato. Matrigno è lo sguardo leopardiano di chi vede e non sa, di chi immagina e non può conoscere. Le cose già consegnate sono dunque matrigne, come il linguaggio lirico del poeta. Una costola fattasi parola da una siepe verso l’orizzonte, che non ha punti fermi. Una postazione come un’altra, che verso il Monte Tabor si affaccia da una latitudine della superficie terrestre per vedere l’infinito, la massima offerta della natura. E’ matrigna anche la distanza da un luogo dove la rivelazione non coincide con una verità inappuntabile: un sogno che purtroppo non si modifica in realtà. Giacomo Leopardi sapeva che l’uomo vive una concezione meccanicistica, come succede per ogni effetto inconsapevole da cui estrapoliamo solo stati d’animo. La natura non dà felicità. Matrigna è la sua forma nel mondo, così come ogni sentimento effimero perché non duraturo, come ogni sviluppo imprevedibile che porta alla diffusione di un virus, ad una pandemia. Ogni formula risarcitoria è allora un’illusione? Ogni tentativo di capire si rivela uno sforzo inutile? Razionalismo e romanticismo: due reazioni suscitate dalla natura matrigna, così indifferente. Eppure il desiderio di sapere rimane insaziabile. Leopardi potrebbe aver provato la stessa sensazione di chi studia le terapie sviluppate a partire dal plasma dei pazienti guariti. Piacere e tensione, scetticismo e speranza, prevenzione e fiducia. La scienza e l’incontro con l’ignoto: un’esperienza dall’esito tutt’altro che scontato, come ogni suggestione eterna.

Alessandro Moscè

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