MORIRE DA SOLI

Le cronache di questi giorni sono  un bollettino di guerra, con i morti che aumentano e l’esercito che trasporta le salme dove è possibile riporle, dato l’elevato numero di vittime da contagio. Si muore e si muore da soli. Negli ospedali i medici che non riescono a salvare i malati intubati o con i ventilatori, sono irriconoscibili, con la protezione individuale, infagottati e assimilabili ad alieni senza nome, senza età, senza lineamenti, senza voce, senza sorriso. Perfino spaventosi. Il malato di Coronavirus non sa chi ha di fronte, se non un anonimo uomo o donna che non può più prestagli soccorso. La senatrice Liliana Segre, che ha vissuto un’esperienza ai limiti dell’inverosimile nel campo di concentramento di Ravensbrück, ha detto fatalmente: “Non ho niente di originale da aggiungere, né la mia immaginazione, né la mia fantasia, né il mio buonsenso, né altro. Sono abbastanza sbalordita da ciò che succede”. Ha visto morire la gente da sola e sa che è un’esperienza tremenda. La morte è entrata nelle case degli italiani, si è impossessata dei telegiornali, ha invaso i social network in un contatto giornaliero. Si muore messi da parte come merce scaduta, privati dell’ultimo saluto e dell’ultimo abbraccio. L’accompagnamento alla morte e il rito funebre sono esclusi dalla prassi, rendendo la pandemia disumana, più tragica di ogni morte stessa. Ammutoliamo perché non possiamo tutelare neppure i cadaveri: è un debito insanabile. Una moglie ha chiesto gli effetti personali del marito che non ce l’ha fatta. Il cellulare è stato localizzato in un cassonetto davanti all’ospedale, buttato perché poteva essere portatore di infezione. Si incrociano gli sguardi frustrati di operatori, medici e infermieri con i solchi procurati dalle mascherine, le mani che bruciano per l’alcool disinfettante, le gambe che tremano dalla stanchezza. Bisognerebbe davvero convincersi che la morte non è niente, non cambiare tono di voce, non assumere un’aria solenne, parafrasando Sant’Agostino? “Continua a ridere di quello che ci faceva ridere, di quelle piccole cose che tanto ci piacevano quando eravamo insieme”, sosteneva nella sua tenerezza purificata, indicando l’assente in un’altra stanza, accanto alla nostra. Leggo una poesia di Ferruccio Benzoni, autore nativo di Cesena (morì prematuramente nel 1997), contenuta nel libro in versi Con la mia sete intatta (Marcos y Marcos 2020), che mi sembra possa descrivere la fatalità insanabile della morte priva di calore, pulsante in una sorta di abisso, in un lascito interrotto, spettrale quanto le parole di un’epigrafe cimiteriale, ma anche segno di un sottile riscatto, di un’adesione, nonostante tutto, impalpabile alla vita terrena. La poesia si intitola Perché infine riaffioro: “Perché infine riaffioro come da un’insonnia / alla luce mi riposo, m’acquieto festoso per l’aria / e più non detesto cosa mi fu negato / ciò che a altri è dovuto e a me è malinconia. / Riconosco – è mio – il dolore: gli faccio festa / neanche fosse un cane battuto. / Assieme / ci accompagniamo per via e sbadati salutiamo / guardando in alto quel chiasso di luce”. La letteratura non è mai separata dalla realtà, ne rispecchia un ordine, un tempo circolare, un’inquietudine quando qualcosa sovverte il corso naturale delle cose, esattamente come sta avvenendo al tempo del Coronavirus.

Alessandro Moscè

 

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