ERRARE TRA POZZI E CIMITERI

Dissociati e quasi invisibili, lunari e inquieti, scissi dalla realtà e infantili nel loro dolce delirio. Sono Roberto Benigni e Paolo Villaggio nell’ultimo film di Federico Fellini, La voce della luna (1990), dove una psicosi straniante sembra essersi impadronita di chiunque scommetta sulla discesa e sulla cattura della luna, che in effetti si verifica davanti alla televisione che segue l’evento in diretta dopo vent’anni dall’allunaggio. Una sensibilità insolita, nella sceneggiatura di Federico Fellini, si rifà al Poema dei lunatici (Bollati Boringhieri 1987) di Ermanno Cavazzoni, scrittore nativo di Reggio Emilia. Ivo Salvini (Benigni), disturbato da sintomi allucinatori, è stato dimesso dal manicomio e si innamora di Aldina, mentre il prefetto Gonnella (Villaggio) è un paranoico che soffre di manie di persecuzione e intravede oscure trame dappertutto. I due camminano lungo la pianura, di notte, tra pozzi di campagna e cimiteri affollati, in cerca di una verità metafisica che solo la luna può svelare in un moto universalizzante. Ivo sente le voci, come le sentono altri malati di mente, quasi fossero parte di una comunità ospedaliera. Nella sagra di paese si festeggia la gnoccata e in una discoteca rimbombano le canzoni pop. Gonella, reclamando il silenzio, riesce a ballare un valzer viennese ottenendo un passo indietro della folla. La luna che viene interrogata immediatamente dopo il duetto sulla pista, è però imprigionata dalle corde, come il volere dell’uomo, come il destino ultimo, inconoscibile. “Niente si sa, tutto si immagina”. E l’immaginare è tanto più fecondo quanto più i rumori si attenuano, nei paesi e nelle grandi città, sotto le nuvole che toccano i grattacieli o rispecchiandosi nell’acqua ferma di un pozzo. L’aldilà rimane un vago presagio, una fotografia senza pellicola, una parola liturgica, una fede senza ordini. Benigni e Villaggio si accendono e si spengono nel trambusto della piazza, ma il loro sogno smembrato non si cancella, cova sotto la cenere. Il cinema felliniano, stavolta, è il luogo dell’anima e della drammaturgia che non garantisce alcun riparo domestico. Ivo e il prefetto scivolano nelle questioni fondanti della dualità vita/morte, in una forma di vanità consolatoria tra divagazioni e discorsi con e sulle ombre, sulla decostruzione di ogni riferimento illuminista, epidermico. Benigni e Villaggio denunciano l’indicibilità e cavano dal nulla un dialogo stralunato, spesso epigrammatico. Un mondo parallelo è un mondo purificato perché profondamente diverso, afono, che guarda fuori di sé, quasi a trascendere un martirio. L’umanità della persona non è scarnificata e neppure dolente, ma consustanziale. Rapisce e penetra l’essere, lo fa esprimere con uno spirito maniacale, nelle contraddizioni e nel sussulto psichico. La luna è materia, ma non si tocca, non si gusta. Al di là del naturalismo di maniera, Fellini concepisce la trama dell’infinito, delle infinite possibilità e visioni, come dotasse i suoi personaggi di una lampada magica per addentrarsi nella nebbia padana del surreale, del trascendente. Astrae Benigni e Villaggio e affida loro un linguaggio che sfida le convenzioni, i limiti della scienza. Apre ad un luogo interiore in un sistema di significati, alterato e mai riconciliato. Ivo e il prefetto, così denudati, rimangono sull’orlo di un abisso come pastori erranti.

Alessandro Moscè

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