IL SISMOGRAFO DEI VITELLONI

La poetica dei vitelloni di Federico Fellini assomiglia alla poetica del fanciullino di Giovanni Pascoli. E’ suscitata dallo stupore, dall’incantamento di un tempo che si ferma, che si stringe tra le mani come una pallina di gomma, schiacciata e ricomposta. Cine34, il nuovo canale televisivo sul digitale terrestre, sta riproponendo in questi giorni i film del maestro riminese per la ricorrenza dei 100 anni dalla nascita. Ho rivisto ieri I vitelloni, che fu girato nel 1953. I ragazzi che non vogliono crescere, i cinque sfaccendati dediti al divertissement, non sono dei giovani felici, spensierati. Non ridono mai sguaiatamente e anche quando amano lo fanno con un senso di avvilimento. Sono dei malinconici bricoleur, per usare un altro francesismo. Passano il tempo, ammazzano il tempo in una provincia tanto noiosa quanto disadorna e priva di prospettive. Le loro vicende si insinuano nel groviglio della post adolescenza, nel desiderio di rimanere a metà strada, tra la giovinezza e l’età adulta, che non necessita dell’assunzione di responsabilità individuali. Ma il tempo passa e preme sul petto di Alberto, Moraldo, Fausto, Leopoldo e Riccardo. Uno solo, di loro, coltiva un sogno, quello di diventare un drammaturgo, e uno solo, alla fine, se ne andrà, non sapendo dove. Non è un caso che il saluto alla stazione avvenga con un ragazzino operaio che alza la mano, sconsolato e sorridente per quel treno che parte. Scherzare e ballare, corteggiare, rimanere in famiglia, non vuol dire elaborare una vita impressa sull’egolatria. I cinque non sono tetragoni, ma fragili, attraversati da un vortice confusionario come il vento che riempie le piazze di provincia senza sapere in che direzione soffia. I vitelloni è anche un film cinico, che sottrae l’età dell’amicizia e l’eterna speranza di animare un borgo, dove le voci e i corpi non saranno consumati, ma rinvigoriti dalla freschezza delle stagioni, dai trent’anni rimasti per sempre nel gesto dell’ombrello, nella fuga di Sandrina, nel ballo di carnevale, nel travestimento di Alberto. Federico Fellini, con I vitelloni, ha socchiuso una porta, la stessa di Citto Maselli nel film I delfini (1960), in cui i giovani, in quel lungometraggio, non sono capaci di rompere un ordine prestabilito. I delfini sono coloro che si avvicinano alla costa, prendono il largo, ma tornano, si muovono dentro uno spazio chiuso, alzano la testa e la riabbassano in un mare che li accoglie e li respinge. In Maselli c’è consapevolezza, in Fellini agisce l’istinto, una mansueta ribellione. I vitelloni non è un film generazionale e non è il film di un’epoca. Seppure nella diversità delle ambientazioni e delle scene, potrebbe essere girato anche oggi con lo stesso proposito. Crescere, andare ad affrontare la “vita ostile” (Sigmund Freud), allungare un tempo che scade, fortificare il presente, affannosamente, per la paura di cambiare, rappresentano sensazioni che si provano sulla propria pelle, non solo in una pianificazione ambiziosa o sconsolata. Il titolo del film indica una parola imprecisa. Disse Tullio Kezich: “Sul termine vitellone si apre un dibattito filologico. Esso sarebbe marchigiano e non romagnolo, più legato al lessico familiare di Ennio Flaiano, il quale ne scrisse nel 1971 ricordando come dalle sue parti fosse usato per indicare un giovane di famiglia modesta. Nascerebbe, cioè, non dal “vidlòn” riminese, ma dal “budellone” (grosso budello) del centro-Italia, “persona portata alle grosse mangiate”. Le mangiate del giovane esibizionista e un po’ spaccone, ma accorato, con lo sguardo perso che ricorda la maschera di Pierrot in una doppiezza che fa della vita interiore il sismografo di un temperamento non facile da captare.

Alessandro Moscè

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