CARLO BO E IL CRISTIANESIMO

E’ interessante riscoprire la figura di Carlo Bo, critico letterario, traduttore, docente, rettore, ispanista e francesista, legata al Cristianesimo, rileggendo alcune considerazioni annotate nei primi anni Settanta, dunque nel periodo post Concilio, quando ancora non si era spenta la contestazione studentesca e la società italiana era in subbuglio, con sommosse pubbliche e tentativi di destabilizzazione dell’ordine democratico. Carlo Bo ha scritto molto e in più giornali, riviste e libri collettanei, con interventi contigui al presente culturale e agli avvenimenti storici espressi nella lunga attività accademica. Rivendicava un principio personale, prima che comune: vale a dire la non riduzione della preghiera, considerata un fatto soggettivo e non una “pedagogia ascetica”. In una fase storica dove tutto si stava traducendo in azione comune, esteriore e mondana, il dominio privato non poteva essere eliminato da una partecipazione guidata, ma doveva resistere in un atto di convinzione, di speranza individuale. Il riferimento alla poesia non è casuale: “La preghiera dei credenti è nutrita e in qualche modo continuata dai poeti che aspettano la grazia della preghiera”. Carlo Bo non si lasciò avvincere dalle mode, dai rituali passeggeri, perché in fondo Cristo insegna un moto ascensionale, il mistero chiuso nel futuro che guarda in alto e non in basso. Un altro tema scottante riguardava la fede e la politica. Se il marxismo era un’ideologia sottoposta a cambiamenti, a correzioni, ad interpretazioni, il cattolicesimo rimaneva inscindibile nel riconoscimento del male e nel rispetto di due fattori chiave: la libertà e la giustizia. Pertanto la dignità dell’uomo è inviolabile e non va mai offesa. A Carlo Bo sembrava impossibile attuare questi capisaldi in un regime capitalista o socialista inteso come strumento esplicativo del potere, di un gruppo e non di un popolo, animato da uno spirito di sopraffazione. Emergeva la necessità, avvertita dallo stesso Papa Pacelli, che la Chiesa uscisse dalle sue stanze, da un ambiente chiuso, per comprendere gli avversari con una “serie di incontri e confronti”, mettendo al centro una prospettiva e non uno scontro di civiltà. Pertanto Bo non indicò mai un partito da seguire, ma un lavoro di analisi critica, di testimonianza. Ecco un pensiero eloquente: “Il cristiano deve essere il creatore della propria storia senza dimenticare che si tratta di una storia comunque dipendente, comunque legata ad un fine più alto”. Ci sono altre considerazioni che Carlo Bo evidenziò nel suo credere privo di deformazioni, di cedimenti. Dicevamo degli anni Settanta, di un’aria surriscaldata, di una tensione civile protratta in cui era facile prendersela con i simboli. Gli atei attaccavano la Chiesa che usciva allo scoperto mostrando il volto di una condizione diversa a partire dal dopoguerra. Bo rimarcava che “è possibile un rapporto tra mondi diversi se la Chiesa torna in mezzo al mondo”. Citava Papa Giovanni Paolo XXIII, il suo fascino, la sua grazia, il coraggio di rompere gli indugi, di “rimettere in acqua la barca di Pietro”. Auspicava il mondo cristiano nel mondo degli altri uomini, di tutti gli uomini. Bo colse il valore cardine menzionato di Charles Péguy, poeta e saggista francese, che passava per la carità, per una fede cristiana, laica e politica, per un registro di sentimenti veri. In mezzo secolo di governo rettorale dell’Università di Urbino, Carlo Bo ha fornito elargizioni economiche a studenti provenienti da famiglie indigenti. In questo gesto esemplare racchiudeva la totalità della sua coscienza umile e generosa, la sua carità.

Alessandro Moscè

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