LA PREFAZIONE A “LA VESTAGLIA DEL PADRE” DI ALESSANDRO MOSCE’

Non sono un critico di poesia. Non lo sono mai stato. Ho sempre tenuto la poesia in una dimensione mia privata, come se il mio essere critico letterario necessitasse di un cassetto privato, dove i fogli della poesia diventano non soltanto una consolazione, ma una forma di salvezza. In questi anni la crisi profonda del romanzo è evidente a tutti. La narrativa ha preso forme commerciali, medie, alla continua ricerca di un pubblico, ancella frusta e goffa di un cinema a sua volta decaduto nella serialità, nella semplificazione. Non è un caso che entrambi, cinema e narrativa letteraria, siano parte integrante del mercato, del consumo artistico. E la poesia? La poesia è un paradosso. Da sempre terreno di un mondo vastissimo e più o meno sommerso di pittori della domenica che al posto del pennello utilizzano la penna. E da sempre terreno collettivo di persone che, attraverso una emotività pasticciata, trovano nel verso un modo di raccontarsi, e di offrire la propria sensibilità a chi è disposto a leggere. Si tratta di una bizzarra prosa poetica sempre più sommersa in una società letteraria che alterna poesie non poesie e romanzi non romanzi.
Poi c’è la poesia vera. Che è una strada impervia, bellissima, ma che è una salvezza. Perché la vera poesia, e perdonate quel “vera” che non è solo un apprezzamento, ma è una boa a cui aggrapparsi, soprattutto in questi anni, dove impera la metaletteratura. La poesia vera è fatta di parole, di materia, di dolore autentico, di ricordi, di follia, di amore, e di immagini sfuggenti. Ma soprattutto è in quella parola mai ricercata, ma scelta, mai esibita, ma rispettata. E poi intima, inquieta, incastonata in un passato privato del tempo, perché è il nostro tempo di lettori che trova la sua strada tra i versi di Alessandro Moscè.  I temi ci sono tutti, fermi nel loro dolore, nell’assenza, nella consapevolezza delle nostre finitezze, con quella follia che sempre è una porta aperta su stanze che non conosciamo, su i corridoi bui delle nostre vite. Con quello sgomento che ti lasciano i Natali del passato, con il calcio che entra ed esce dai versi come una cucitura necessaria, come un motivo che riaffiora a ricordare la propria identità, il gioco delle passioni, e le passioni messe in gioco. Ma è dentro la scelta dei temi, oltre che dalla sapienza dei versi, che Moscè si muove meglio. E mi permette di mettere nel mio cassetto privato questi fogli. E mi regala un letterario che negli ultimi anni non riesco quasi più a trovare. Questi temi dolorosi, uniti alla bellezza delle immagini, di qualcuno che sa guardare con la parola (e questo ci accomuna, certo) sono i miei temi, sono i temi di tutti, sono la scrittura quando prende un senso, sono il moderno e l’antico che coesistono, che rimbalzano che si rincorrono. Con questo filo conduttore dove è il ricordo, la famiglia a tenere questo suo presente, perché è così che si deve fare, così che si deve scrivere. E poetare, se il verbo mi è consentito. Terrò cari questi versi, per imparare e rileggere, perché dalla poesia si impara sempre, versi come asole di una divisa di lana spessa che portiamo in questi sentieri di ghiaccio che siamo condannati ad attraversare. Asole a chiudere quei bottoni che provano a salvarci, a non lasciarci lì, in quel bianco della follia, che alla fine ti rincuora, anche se in apparenza sarebbe insensato. E ti rincuora perché è lì la materia prima dell’universo, la materia prima con cui erigiamo il dolore di ogni giorno. Da lì prendono forza le nostre vite smarrite nei ricordi e nei sentimenti, che in questa raccolta sono una consolazione. E non posso che esserne ammirato.

Roberto Cotroneo

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