IMPEGNO CONTROVOGLIA

Entrando in una libreria che ha in dotazione testi nuovi e usati, accatastati in vecchi scaffali di legno, mentre passeggiavo a Pesaro tra il corso principale e i vicoli, la mia compagna è stata colpita da un volume che avevo sbirciato da ragazzo, ma del quale non ricordavo nulla. Impegno controvoglia di Alberto Moravia, edito da Bompiani nel 1980. L’ho acquistato ad appena 5 euro e mi sono immerso nella lettura la sera stessa. Nei saggi, negli articoli, nelle interviste, negli scritti sparsi, ho constatato ancora una volta come il furore di Moravia e Pasolini fosse il combustibile di una reciproca stima e di un dibattito molto intenso. Per Pasolini l’Italia era un paese “orribilmente sporco”, per Moravia un paese “orribilmente ignorante” (in cui la sottocultura veniva accreditata come controcultura, usando un caritatevole eufemismo). L’articolo che ho sottolineato si intitola Gli italiani secondo Pasolini e fu pubblicato il 23 giugno 1974 in risposta ad un intervento dello scrittore friulano sulle pagine del “Corriere della Sera”. Constato che l’impegno di Moravia e Pasolini non era eminentemente politico, ideologico, ma sociale, in tempi di turbolenza che non poteva non trascinare nella discussione anche l’arte. Del resto Moravia ammise che la stessa Unione Sovietica non aveva mai fatto autocritica servendosi dei principi e del metodo marxisti, del principio e dei metodi stessi ai quali si faceva appello per condannare i dissenzienti. Insomma, la politica non era sufficiente nell’espressione della libertà di opinione, fino a che l’autocritica non avesse spinto a cambiare le leggi. Pertanto si affermò in Moravia un sentimento di estraneità, seppure non di indifferenza per la politica (“Non ho partito, odio i partiti”). Pasolini, nel mutamento antropologico degli italiani, non vedeva più alcuna differenza apprezzabile, “al di fuori di una scelta politica come schema morto da riempire gesticolando, tra un qualsiasi cittadino italiano fascista e un qualsiasi cittadino italiano antifascista”. Moravia non ci stava. Non sentiva le ragioni premorali e preideologiche, indipendentemente dall’omologazione culturale e dal contenuto sociale. Leggo termini che quasi cinquant’anni dopo sono desueti, ma che risultarono il pilastro dell’Europa di ieri, di un’eredità scomoda: “sistema”, “lotta di classe”, “conservatorismo”, “rivoluzione”, “dogmatismo”, “umanesimo”, “borghesia”. Moravia diceva che mutare le cose vuol dire mutare in parte o del tutto le strutture economiche. E oggi? Cosa direbbero Pasolini e Moravia, ci siamo chiesti tante volte? Le strutture economiche dello Stato e i modelli aziendali non sono cambiati granché, per cui la politica non ha avuto un effetto dominante nell’Europa, nonostante il crollo del comunismo e la caduta del muro di Berlino. Ed è vero anche che distinguere un fascista o un razzista da chi non lo è, appare sempre più difficile. Ma continuando a leggere il libro mi domando quale evoluzione si possa riscontrare dopo decenni da quei dibattiti così calorosi. Forse ben poco, se Alberto Moravia su “L’Espresso”, il 3 ottobre 1971, diceva: “Nonostante un secolo e più di socialismo, gli uomini sono rimasti individualisti fino in fondo all’anima e per loro esiste solo ciò che li riguarda personalmente”. I giornali e le radio ci sono perché ci sono le masse. Nel 2020 aggiungiamo la televisione, internet e i social. Ma non è venuta meno neppure la fuga da un esercito nemico che spinge ad andarsene senza mezzi e senza denaro da un paese miserabile e privo di risorse, nonché da un esercito nemico. Oggi Moravia vedrebbe una nuova forma di decadentismo, di irrazionalità, il preludio di un conflitto ideale, europeo, l’esempio di un’esperienza internazionale traumatica. Sui rapporti tra stati fu categorico. Sempre sul “Corriere della Sera”, il 12 ottobre 1973, pose una riflessione da sottoporre a Pasolini e ad ogni elettore: “Come può diventare democratico il mondo, se non è possibile alcun vero controllo di specie, appunto democratica di ciò che perpetrano e tramano gli stati al riparo dei loro inviolabili confini?”. Gli stati sono paragonati a tante lavandaie di cortile, ridimensionati, ridicolizzati. Il piedistallo si costruisce con le idee, che sono più forti delle divisioni, ma ne abbiamo perso la trama nel culto della personalità, benché lo stalinismo sia morto, come il capitalismo. Il culto dell’uomo, nel 2020, partorisce ben poco del suo consenso dalle istituzioni e dalla contestazione. E’ affidato ad una compulsiva deviazione dal basso che i nuovi di mezzi di comunicazione favoriscono nella loro fluidità, visibilità e autonomia. In altri termini è in un aumento la sottocultura demagogica notata da Moravia. Infine, un’ultima considerazione. Negli anni Sessanta e Settanta la contestazione aideologica riversava la gente in piazza, nelle strade: si protestava vivacemente contro il potere arbitrario, ingiusto. La contestazione che precedeva spesso la rivoluzione e la violenza aveva un carattere empirico, determinata da una delusione, da un fallimento sistemico. Oggi la democrazia dal basso avvalorata dai nuovi mezzi online non unisce la collettività (politica e non), ma rende il soggetto, qualunque soggetto, un elemento solitario della macchina di partecipanti superficiali, dozzinali.

Alessandro Moscè

 

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