IL ROMANZO BIBLICO DI CARLO SGORLON

Il friulano Carlo Sgorlon, nato a Cassacco nelle vicinanze di Udine, è stato un narratore molto legato alla sua origine, alla terra intesa come prolificante regno umano, animale e vegetale, al fumus di un luogo rivisitato oniricamente e abitato con partecipazione emotiva, epica, tanto che si può parlare, stando alla maggior parte delle opere, di sentimento della natura che si nutre di una geografica energia, di un campo magnetico residenziale. Lo spazio al quale attingere per la formulazione di un’idea, prima ancora che per raccontare una storia, è quello del sortilegio, o meglio del suggerimento che viene dai piccoli misteri quotidiani. In tal senso possiamo citare i romanzi Il patriarcato della luna (Mondadori 1991), La tredicesima notte (Mondadori 2001) e L’achimista degli strati (Mondadori 2008). Da ragazzo lessi La fontana di Lorena (Mondadori 1990), che la settimana scorsa ho ritrovato in una libreria di Senigallia e che ho acquistato a metà prezzo. Trent’anni fa quel libro mi colpì perché una donna che viveva ai limiti di un bosco (non ricordavo dove), incontrò nientemeno che Marc Chagall, arrivato in incognita e scambiato per un saltimbanco. Naturalmente il romanzo ha una portata diversa dall’immaginazione del sodalizio amoroso tra la pittrice del paese, Adegliano, e il genio bielorusso di origine ebraica naturalizzato francese. Qui la realtà e la tensione panteista fanno parte di un segreto, di una strana alleanza tra esseri viventi, di un flusso antropologico, quasi che il mondo intermedio tra i vivi e i morti comunicasse ancora il tempo arcaico, una notte remota, che non si quieta, ai confini con il visibile e l’esistente. La fontana di Lorena è una narrazione di attingibili presenze adombrate dal non vissuto in prima persona. Nel 1990 mi colpì il personaggio di Eva (una donna alta, ben modellata, con una capigliatura compatta, leggo adesso) e della sorella Astrid, ma soprattutto Saturne, la loro casa, una fortezza cupa, scura, malinconica come l’animo delle mogli che hanno perso i mariti. Etienne, un belga che costruisce strade, viadotti, svicoli, rampe autostradali, se ne va a cercare fortuna in Brasile, nelle foreste, nonostante la resistenza di Eva e della dolcissima figlia Giulia. La fontana di Lorena inizia con un suono di tromba che non si sa da dove provenga. La sera si scatena il temporale dei solstizi, con refoli, spifferi freddi che entrano in casa. L’elemento magico di Carlo Sgorlon è la comparazione del diluvio con un “vandalismo di forze cosmiche”, quasi fosse una punizione divina intuita da Eva, capace di vedere nel cuore delle cose. Il bosco è il protagonista risvegliato  dall’inizio alla fine del romanzo: determina l’appartenenza sacra alla terra, fa sentire più sicuri di sé le sorelle e i figli, è espressione della potenza rigeneratrice di campagne e pascoli. Dopo il temporale i fagiani scappano nei campi, nei fossi, sui muri di cinta. Un segnale negativo, preludio di un futuro senza più animali, bambini, creature viventi? La paura di Eva testimonia la regressione, lentamente, ad un’atmosfera ferma, bloccata. L’ispirazione originaria di Carlo Sgorlon ha un fondamento visionario, lirico, di un’intensità contadina, forte come le credenze e le superstizioni. Ma il bosco protegge da un’agonia universale, come una divinità del paese alle porte di Cividale che fa presa sulla coscienza collettiva. Una ritualità un po’ sciamana, incantatoria, “perché Dio non è un concetto nitido, di segno preciso, ma la notte di ogni concetto e di ogni definitezza”. Il bosco è altresì un concentrato di depositi, di eterna ripetizione del tempo, di conservazione di residui vitalistici con i loro influssi sulle donne di Saturne, medium che in fondo hanno un temperamento romantico, seppure siano considerate streghe dalla pericolosa vena immaginosa. “Eva, dipingendo, raccontava sempre qualcosa, ossia dava figura a una storia sopra la quale spesso provava la necessità di tornare parecchie volte, perché le pareva di non esser mai riuscita a rappresentarne tutta la sostanza. Dipingere per lei era nell’essenza un cercare di mettersi in contatto con le forme della vita”. Il bosco, ancora, è uno spazio rischiarato dove mangiare bacche, fragole selvatiche, cornioli, lampioni; dove si aggirano lepri, scoiattoli, ghiri, ricci, cinghiali, merli, gazze e cornacchie. Può sembrare di vedere uomini primitivi, nobildonne e duchesse, nonché armi, scudi, spade, bracciali, fibule. Un vecchio notaio è convinto che da qualche parte debba esserci una necropoli longobarda e forse la tomba della regina Teodolinda. Il bosco è, infine, un posto tutelare, fondato su di un ordine: la regola e il ritmo di un’allegoria che non si può dimenticare, a differenza dell’insignificanza del paese di Adegliano. Quando si inquinerà l’acquedotto del paese il pozzo del bosco rimarrà l’unica sorgente dalle falde incontaminate e alla quale attingere per bere acqua pulita. Eva ha l’impressione che nei pressi della fontana i morti parlino, che la foresta sia il punto di ritrovo di chi è sfiorito nell’aldilà, finché si imbatte in un uomo molto vecchio, con un laccio verde che sostituisce la cravatta. E’ un giocoliere, un clown, un poveraccio? Un buffone di circo o la reincarnazione di Charlot? Dipinge e le lascia un quadro. Eva scoprirà che si tratta di Marc Chagall, il celebre artista dell’avanguardia dei colori, che prima di partire ha raffigurato una donna nuda sopra un letto a baldacchino. Dalle finestre aperte si vedono due violinisti e una capra azzurra. Quel quadro e altri ancora, serviranno a salvare il bosco prima da una vendita forzata e poi da un esproprio. La fontana di Lorena sarà per sempre la fontana madre, mentre il limitare del bosco, come gli uomini che vi si aggirano, conferiranno quell’“alonato da una cornice di irrealtà”, lo stesso rinvenibile nell’opera di Chagall. Eva resta bilocata all’interno del bosco e del cosmo, come fosse sempre esistita. La sua magia si può definire il sentimento profondo della natura, scrive Carlo Sgorlon, l’istinto fortissimo di farne parte, come fu per Pico della Mirandola e Tommaso Campanella, immersi in uno spirito corporeo, principio del sentire nell’unità di natura, motore etico di una cronaca biblica.

Alessandro Moscè

 

Tags from the story
, ,
0 replies on “IL ROMANZO BIBLICO DI CARLO SGORLON”