LA DIVA DELLA “DOLCE VITA” DIVENTA UN ROMANZO

da www.pangea.news, 11 dicembre 2018

Sapevo che Anita Ekberg era caduta in disgrazia e le telefonai senza un motivo preciso, forse solo per sentire la sua voce. Parlammo a strappi, finché il suo tono si alterò immotivatamente e riattaccai. Era il 2012. I miti che si spengono sono dei vinti, più interessanti di quando hanno la luce dei riflettori puntata addosso e di loro si sa tutto, oltre il dovuto, con la complicità e l’invadenza di quei rotocalchi che rubano un bacio galeotto o sbattono il mostro in prima pagina, rendendo l’oggi e la dicibilità del mondo un coacervo di soggetti manipolati, fotografati, dediti al lusso e al vizio, un fine e non mezzo per la gente comune che guarda, spettatrice di un vuoto di maschere.
Il mio romanzo Gli ultimi giorni di Anita Ekberg, appena uscito da Melville, non racconta le gesta di una ex diva (altrimenti avrei scritto una biografia autorizzata), ma rievoca in piccole miniature intagliate un tempo passato messo continuamente sotto osservazione. Ricordi, dunque, ma non solo. La vecchiaia arriva e rovescia tutto. Seguo un ritmo inquieto, frammentario come la mente della protagonista, che nella sua smania di guarire da mali reali e immaginari, si pone una miriade di domande che girano vorticosamente anche nei colloqui che intrattiene di volta in volta con personaggi anonimi. La vicenda è sezionata tra dicotomiche percezioni che si riconcorrono in un tutt’uno indissolubile, frenetico: giovinezza e vecchiaia, bellezza e decadimento fisico, vita e morte, eros e sogno. Il polo tematico è mortuario, ma anche sigillato da una tensione che vuole superarlo in una verità archetipica, risvegliante, custode della rinascita.
Anita Ekberg, la celebre attrice consacrata al grande cinema con La dolce vita di Federico Fellini, il capolavoro che è diventato anche un modo di dire (uscì nel 1960), che era stata Miss Svezia appena diciannovenne, vive gli ultimi scampoli della sua esistenza terrena in una casa di riposo a Rocca di Papa, in un territorio di torri e declivi, dopo che hanno dato fuoco alla sua villa di Genzano. Cammina appoggiata a delle stampelle e successivamente sarà costretta a muoversi su una carrozzina, dimenticata da tutti in seguito a vari interventi chirurgici. Un giovane e infatuato giornalista la incontra per intervistarla e tra loro nasce un’intesa durante il pranzo domenicale in uno dei più rinomati ristoranti di Roma. I due si frequentano per alcuni mesi che diventeranno l’occasione per passare in rassegna il periodo d’oro della carriera, quando Anita Ekberg era considerata la diva dagli occhi di ghiaccio, il sogno di tutti gli italiani, specie dopo la celeberrima scena che la vide camminare dentro la Fontana di Trevi con un esterrefatto Marcello Mastroianni svegliatosi da un sogno ribelle. Torna il tempo trascorso con Fellini, Risi, Agnelli, l’incontro con Salvatore Quasimodo che se ne innamorò e che cercò di sedurla facendo leva sul carisma del poeta che aveva vinto il Premio Nobel. Si riaffacciano gli uomini che l’hanno amata passionalmente come coloro che l’hanno tradita nella fiducia. Fellini le appare in sogno ad indicarle una via d’uscita dalla paura della morte.
Anita Ekberg stringe amicizia con un anacoreta d’altri tempi, con un prete dedito all’alcool e con una signora minuta e garbata: figure aleggianti in una quotidianità surreale, tra cose mai dette che emergono nelle zone d’ombra che ognuno di noi si porta dentro. La metafora della vecchiaia è racchiusa in un quadernone dove l’ex attrice appunta, tramite lettere che non spedirà mai, impressioni e stati d’animo, racconti visionari e preveggenze, sedute spiritiche e nostalgici flash back. Ma non tragga in inganno la ritualità delle giornate, il malessere della donna, la nudità di senso e lo spaesamento nella proliferazione verbale e nella lacerazione confessionale. Anita Ekberg vorrebbe vivere in eterno e si chiede ossessivamente, nelle viscere della dialettica, come sarà il dopo, se mai ci sarà. Immagina, con una vena felliniana, il paradiso e il nulla, la luce e il buio, nel terrore di sprofondare in un niente abissale, inanimato. In un’affermazione pulsionale quanto surreale, in un’intelaiatura al limite dell’incontro con un oscuro demone, è afflitta dall’agone della malattia. La contesa è con il tempo epifanico riscattato da forme immaginose, mitopoietiche, come quando esce dall’involucro del corpo volando via in una nebula inattingibile, irreale.
In questi giorni è uscito un saggio di Vincenzo Paglia, Arcivescovo ed ex presidente della Federazione Biblica cattolica, dal titolo Vivere per sempre (Piemme). Si parla di Gesù risorto, di un Dio di fede non astratto. La vita risorge con il corpo, con la sua storia, con il bagaglio di esperienze vissute, secondo Paglia. Il paradiso non può fare a meno della carne, ci suggerisce il teologo. È esattamente quanto succede nel mio romanzo. Anita Ekberg sale in un piroscafo che la condurrà in Svezia, sulle rive del Mar Baltico, dove verranno lanciate in acqua le ceneri della ex diva direttamente dalla nave. Il viaggio la conduce verso la morte, mentre una sequenza di paesaggi accompagna il transatlantico (in realtà è ospedalizzata e gli esami clinici alla quale la sottopongono confermano un male incurabile). I paesaggi sono fatti di rocce, spiagge, natura incontaminata, piccoli centri, giardini botanici. Sembra il preludio del paradiso, l’anticipazione di un immenso eden. Nella nave ci sono i vivi e i morti: Orietta Berti, Nilla Pizzi, Renato Carosone, Fellini stesso con Giulietta Masina. Gli ospiti si lanciano in una danza sfrenata, dionisiaca.
Anita Ekberg rinascerà nel momento del trapasso avvenuto in ospedale, ma a vent’anni. Irriconoscibile, viaggerà in treno da Rimini a Roma, nei luoghi della libertà e del successo. Ricomincerà da capo, esattamente come le aveva predetto, in una seduta spiritica, la minuta suor Secondina, che annunciava il destino dell’anima dopo la morte del corpo. Gli ultimi giorni di Anita Ekberg è un romanzo visionario, pagano, ma con un fondamento cristiano. Dio esiste e si avverte, come scrivo, in una sorgente che viene dal passato remoto, dal passato prossimo e dal presente che pian piano si fa lattescente, umido al largo della luce. Quando si rinasce non si ha più paura della morte, perché in fondo la morte non è altro che la sconfitta della perdizione, di ogni tipo di dissipazione e di solidarietà tra le persone. Perfino Gianni Agnelli parlava di Dio nell’assillo di comunicare con l’Altissimo, mentre amava Anita Ekberg. Agnelli avrebbe portato Dio in barca, lo avrebbe trattato da magnate, da agente segreto, con grande rispetto.
Il romanzo è scritto in una sorta di patchwork, perché non utilizzo un solo stile, classico, una struttura narrativa determinata, ma un linguaggio tirato, sollecitato dall’inconscio, tanto che la parola è qualcosa da plasmare, da adattare nella griglia spazio-temporale, nell’espressività dei significati. Per illustrare gli anni Quaranta menziono la strage di via Rasella e quella delle fosse Ardeatine, alla quale assistette il marito di un’ospite della casa di riposo, “un partigiano duro, rispettato, temuto” che sfuggì alla cattura dei tedeschi. Arrivando agli anni Settanta tiro in ballo la cronaca, il delitto Moro, la strategia della tensione che costrinse Anita Ekberg, avvinta dalla paura, a recarsi in Svizzera perché a Roma si sparava e si uccideva in un orizzonte culturale mutato con l’eversione e l’uso delle armi. Per inquadrare gli anni Novanta e Duemila, subentra un gentilissimo Silvio Berlusconi che in un onirico scenario casalingo invita Anita Ekberg giovane a visitare una delle ville lussuose di cui è proprietario, cedendo ai consigli di una ragazza perspicace. Da un’epoca di livori collettivi si passa ad un edonismo dove l’anima non è più riconosciuta come un dato dell’esistenza umana. Ecco un passo del romanzo in cui Anita Ekberg definisce il terzo millennio dell’ipervisività: “Ci sono trasmissioni televisive in cui i sentimenti vengono ridicolizzati in quanto strumenti per rifugiarsi nel sentimentalismo facile, come fosse merce da vendere. Il sentimentalismo non è altro che fiction. Cioè svenevolezza, smanceria. Fa colpo quando diviene corpo e si vede”. E ancora: “La nascita e la morte: oggi un’ondata insana di superficialità fa credere che siamo padroni di noi stessi anche nelle funzioni biologiche. Mai come adesso si parla di morte solo in seguito ad una sciagura, perché la morte è una sensazione, non un evento terminale nel ciclo della vita. La morte come un incidente che non doveva succedere, ma è accaduto per l’intervento di un agente esterno che l’ha disgraziatamente provocato. L’esistenza è diventata una corsa contro il tempo, una sfida indomita per rimanere giovani”.
Sono convinto che il romanzo debba anche spiegare, non solo descrivere. La narrazione di idee prevale sul plot che sviluppa una storia secondo tappe cronologiche. In fondo l’idea genera i fatti e a questo punto non può non subentrare il senso metafisico, assoluto. Forse questa è la novità del libro. L’ossessione di Anita Ekberg, nella sua intemperanza psichica, non esclude la dimensione erotica, tanto che la donna ricorda, in un’intervista fattale proprio da Salvatore Quasimodo che ho recuperato, il mito della sensualità, quando il poeta la definiva con strane formule: “regina dei giardini dei Borgia”, “cortigiana del novelliere”, “Venere del Botticelli”. Anita Ekberg è stata una donna carnale, passionale, seppure volesse superare l’icona di donna del sesso e assumere la veste, inusuale, di donna del pensiero, “che non va solo a fare l’amore”. L’intervista con Quasimodo è di poco successiva all’uscita nelle sale di tutto il mondo della Dolce vita. Anita Ekberg, in quel momento, è una principessa sul set ritratta con il seno debordante, con ampie scollature, con un’aria trasognata, con i capelli tirati all’indietro, che indossa vestiti neri con lo strascico.
L’attrice è morta l’11 gennaio 2015, ma continua a vivere da qualche parte. Fellini, nel film mai realizzato Il viaggio di G. Mastorna, era stato l’ideatore, con Dino Buzzati, di un tempo perduto, di un girone dantesco. Dove si va a finire quando si muore? La morte e l’aldilà, coincidono davvero? Si vive ancora dopo il decesso, che nella sceneggiatura del film avviene con un disastro aereo annunciato in un tg? Mastorna, detto Fernet, è un clown che suona il violino e il violoncello. Peccato che il cinema italiano sia stato privato di quello che sarebbe stato di sicuro un grande film allucinatorio, magmatico.
Come si morirà, si chiede Anita Ekberg? “All’improvviso, senza accorgersene? Di notte, nel sogno? O la morte verrà a prenderla, personificata, sotto forma di una signora che potrebbe assomigliarle?”. La diva si avvia verso Roma, rinata, lasciando una stazione di provincia al fianco di Federico Fellini (non si è accorta di essere venuta a mancare, ma solo della sua resurrezione). Proseguono senza parlare, osservando piccoli dettagli tra bagliori e trasparenze, buio e risalto visivo (visionario), nella cerniera tra mare e città, nel senso armonico tra cielo e terra, illuminati dalla cometa, da un soprassalto che l’occhio misura nella natura crepuscolare. Il passato, nel fine-sequenza, è ormai stretto in una osmosi ideale e lo scoramento appare un’orazione lasciata alle spalle per un’efflorescenza di rivelazioni, in una mediazione liberante e conclusiva.

Alessandro Moscè

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