LE SPALLE CURVE DEL MIO EROE

Dove si nasconde Dio, e lui, con il nostro passato?
A.M.

Sosteneva Søren Kierkegaard che “il ricordo è un’ombra che non si può vendere, anche nel caso qualcuno volesse comprarla”. Roma, Chinaglia, la Lazio del 1974, dell’allenatore Maestrelli, di Re Cecconi, di Wilson… Ecco il ricordo infrangibile, che non è mai al capolinea. Qualcosa di essenziale e irrinunciabile. Immagino le strade di Roma negli anni Settanta, il Maggiolone o la Jaguar di Chinaglia, la folla che acclamava e seguiva Long John, le donne che lo veneravano. Roma e Tor di Quinto, uno spaccato calcistico con il campo d’allenamento come quartier generale, con la conquista del primo scudetto che si deve quasi per intero a questo ragazzone figlio di emigranti che ebbe il primo impatto con il calcio nel Galles, generoso quanto brusco, popolare, amatissimo, scomodo, che andava ad esultare sotto la curva della Roma dopo un goal piantonando l’area avversaria da gladiatore della vecchia capitale del mondo. Il passo lungo, dinoccolato, la testa incassata tra le spalle curve. Un fisico da rugbista, un attaccante dalla progressione inarrestabile.
“Tu segui la sua ombra”, mi ha detto Marina dopo aver letto il mio romanzo Il talento della malattia edito da Avagliano nel 2012, in cui narro della guarigione da un terribile sarcoma di Ewing. Gli psicologici moderni la chiamano “motivazione antagonista”: pensare ad altro per non lasciarsi risucchiare dalla depressione ospedaliera. Ero un bambino e mi rivolgevo a quell’idolo che incontrai in ritiro, a Gubbio, nel 1984. Si alzò un coro dietro la porta dove erano assiepati i tifosi: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”.
Un’ombra che parla, che si muove, densa e afferrabile dai muri all’asfalto, dalle vetrine ai corridoi. Un’ombra che si aggira a Roma tra gli appartamenti (gli stessi di allora), i bar, i ristoranti a nord della città. E ancora i quartieri assolati di Ponte Milvio, dei Parioli, della collina Fleming, dove abita Dino Zoff, che con Chinaglia ha fatto il militare da ragazzo. Via Baldo degli Ubaldi: negli anni Cinquanta era una via di campagna, poi sono stati costruiti i palazzi dal presidente della Lazio Umberto Lenzini. Sull’Aurelia Chinaglia camminava fiero, aveva le camicie a fiori, i capelli con i basettoni. La gente lo salutava e lo ringraziava. I romanisti lo temevano, imprecavano. Sull’Aurelia, vecchia strada consolare, c’era la sede dell’Hotel Americana dove la squadra si ritrovava dopo le partite. I ragazzi di Maestrelli vedevano insieme “La Domenica Sportiva” e poi uscivano. Roma, nella notte, era abbagliata da una luce incantevole. I lampioni dell’albergo venivano presi di mira da chi sparava con la pistola a canna lunga. Chinaglia, Petrelli, Martini.
Marina ha pianto, dopo aver letto il libro. E’ un fiume in piena. “Mi hai fatto diluviare di lacrime. Per lui e per te. Dovranno dedicargli una via, a Roma”. “Lo sai che quando era incazzato perché non segnava dava i pugni sul muro e aveva le nocche delle mani insanguinate? Si calmava solo quando buttava la palla in rete, la domenica. Se gli facevano notare un articolo di giornale in cui lo criticavano, se ne infischiava. Frega cazzi, frega cazzi, ripeteva”.
Giorgio Chinaglia odiava Michel Platini, diceva che lo avrebbe buttato a terra con un soffio. Aveva la fisima del pallone medicinale con dentro la sabbia, come si usava in Inghilterra. Per gli allenamenti pretendeva una sfera più dura di quello da gioco. Appena poteva dormiva, anche dieci minuti. Ovunque potesse sdraiarsi. Maestrelli gli diceva che faceva bene a riposarsi prima della partita allungando le gambe sulle panche dello spogliatoio. Chiudeva gli occhi e il difensore Oddi lo svegliava quando era ora di entrare in campo. Aveva un carisma impressionante. A chiunque si azzardava a riprenderlo rispondeva che faceva quello che voleva, quando voleva e dove voleva.
Ci piace immaginare che Giorgio Chinaglia sia sempre in America, che tornerà ancora una volta, l’ennesima, per fumare una sigaretta con noi e per bere un drink. Il calcio è un insieme di trame. Con Chinaglia abbiamo assistito ad un eroe che genera ancora consenso, quasi che la sua eco sia ancora più accesa, adesso che non c’è più.
Non faccio che cercare chi l’ha conosciuto. Alfredo Recchia è un uomo di più di ottant’anni che vive a Frascati. Autista della Lazio dal ’68 al ’90, definito “l’angelo custode di Giorgio Chinaglia”. Nessuno sa più di lui cosa facesse Long John nella vita romana, sia da calciatore che da presidente. Specie da presidente, negli anni belli e travagliati. “Un uomo buono, un po’ ingenuo. Con un unico desiderio, quello di tornare alla Lazio. Una notte di maggio del 1983, mentre scaricavo i borsoni dei giocatori a Tor di Quinto, squillava incessantemente il telefono a gettoni che c’era dietro la casupola degli spogliatoi. Risposi. Era Giorgio. Mi disse che sarebbe tornato dall’America per comprare la Lazio e di avvertire subito il fedele Felice Pulici. Mi volle al suo fianco. Mi trasferii in una mansarda di Piazza di Spagna con Chinaglia. Quando era nervoso chiamavo mia moglie e le dicevo che non sarei tornato a casa. La mattina uscivamo e mi fermavo al bar a prendere un cornetto e un caffè. Lo accompagnavo dappertutto. Da presidente Giorgio sperava nell’aiuto di alcuni manager americani che gli chiesero di intercedere per ottenere delle Ferrari. Allora pregava Luca Cordero di Montezemolo di fargliele recapitare al più presto. La richiesta arrivava immediatamente a Gianni Agnelli. Una volta, a Milano, ci rubarono la Mercedes che era costata 80 milioni. Si lamentò perché dentro c’erano le cassette di musica leggera. Non per la macchina, ma per le cassette. Mi venne da ridere, anche se affranto. Vuoi un altro aneddoto? L’arbitro Menicucci ci penalizzava sempre. A Firenze aveva un negozio di articoli sportivi. Passammo di lì per una trasferta e lo vedemmo sull’uscio della porta. Giorgio voleva scendere dalla macchina per picchiarlo. Pulici mi obbligò di proseguire alla svelta. Durante la partita con l’Udinese all’Olimpico, eravamo seduti in tribuna d’onore. Menicucci ne combinò di tutti i colori. Ad un certo punto Giorgio mi ordinò di seguirlo e scese ai bordi del campo. Lo avrebbe ammazzato di botte. Lo tenemmo in quattro sfilandogli l’impermeabile e strappandogli l’ombrello dalle mani. Menicucci ebbe paura. Chinaglia poteva diventare uno degli uomini più ricchi d’Italia. Rinunciò ad avviare un’impresa che avrebbe fruttato miliardi. Gli americani volevano vendere il travertino di Tivoli e il marmo di Carrara. Si appellarono a lui perché prendesse in mano le redini dell’azienda e facesse la spola tra Roma e New York. Giorgio era occupato nella conduzione dalla sua Lazio e non li ascoltò. A mezzanotte in punto l’allenatore Juan Carlos Lorenzo ci chiamava e chiedeva consigli, ogni sabato. Facevamo la formazione in tre mentre il mister argentino si metteva la brillantina in bagno. Roba d’altri tempi”.
Chissà se Giorgio Chinaglia si sentiva solo, in Florida. Dicono che non facesse altro che parlare di Roma. Chissà se gli mancava l’atmosfera dei bei tempi. Tante volte era tornato e tante volte se ne era andato. Un’avventura continua. Roma è stato sempre orfana di lui, quando non c’era. Lo raggiungeva Giancarlo Oddi al telefono, ogni settimana. Parlavano da vecchie glorie, ma l’amore per quella maglia era immutato. E pensare che qualche giorno prima ci aveva anche giocato, sulla malattia. Oddi gli aveva detto: “Mica te ne vorrai andare prima di rivederci?” Lui rispose che stava bene e rise. Aggiunse poche cose con la voce roca, intervallata dalla boccata di una sigaretta appena accesa sul divano di casa. A Naples, nella città dove viveva, il clima era ideale. Ci abitano Steven Spielberg e Larry Bird su quella linea costiera dal clima temperato. Ma Roma era Roma. La giovinezza era la giovinezza.
“E’ ancora là”, mi dice Marina. Non crede alla morte del mito del secolo bianco-azzurro. Anche se è solo una morte fisica. In effetti sembra proprio qualcosa di transitivo, perché il giocatore Chinaglia è immortale, nel suo ritratto che è diventato un’icona. La nostalgia si fa progressiva, aggredisce come faceva Giorgione nell’area di rigore quando Garlaschelli crossava. Il sogno non brucia, ma i nostri occhi sono increduli se scorrono le immagini su Youtube. Il presidente Chinaglia andò ad incontrare i tifosi in curva prima di un Lazio-Inter. Alfredo Recchia gli teneva l’ombrello, pioveva. Era stato preparato uno striscione ordinato da lui: “Siete impagabili”. Indossava uno spolverino bianco e lo accolse un’ovazione: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. 50.000 persone tutte dalla sua parte. Lui che appartiene ad un calcio di affetti, quando La Campagnola, il ristorante gestito dal mitico Severino, era il punto di riferimento di giocatori e tifosi. Chinaglia divorava le fiorentine alla brace mentre i giornalisti cercavano timidamente di carpirgli qualche dichiarazione. Ma il numero nove non li ascoltava.

Dove sei, Giorgio, dove sei?
Tra i miti delle origini e i miti degli eroi si possono trovare gli ascendenti di un Giorgio Chinaglia qualunque. Gli dei e gli eroi finiscono per far parte di un unico olimpo, venendo invocati insieme, nei giuramenti. E’ successo a molti tifosi laziali dopo la morte di Chinaglia. Un signore mi ha scritto, su Facebook, paragonando la conservazione delle fotografie del calciatore ad un culto sacro, come quello delle reliquie. Nell’eccesso di enfasi ha reso l’idea di ciò che facevo da bambino. Pregavo la Madonna, ma mi allietava pensare a Long John. Una vanità, una leggerezza che portava bene. Tra l’altro Chinaglia piaceva al nonno materno, che arrivava a Fabriano il sabato, con il primo treno della mattina, e se ne andava con l’ultimo della domenica. Indossava uno spolverino bianco che lo faceva assomigliare ad un poeta dell’est. Nella mia infanzia Giorgio Chinaglia aveva già un ruolo. Scendeva da una botola e mi faceva compagnia mentre aspettavo che mia madre, di ritorno dal lavoro, mi venisse a prendere a scuola.
Ecco che nel riverbero della luce che filtra dalle fessure della serranda, si materializza come quando usciva dalla botola, durante gli anni della scuola elementare, dalle suore. Non ha il volto stanco e gonfio degli ultimi anni, ma è il centravanti che ha vinto uno scudetto in quella squadra che aveva fatto grande e che riteneva fosse cosa sua. Gli occhi sono chiari, tristi, i capelli arruffati. Ha sempre voluto correre il rischio di vincere e di perdere da solo, assumendosi tutte le responsabilità, anche da presidente di una Lazio sfortunata ma amatissima. E’ il rituale dei sentimenti che mi induce a contornarmi di un vissuto emotivo che non si è mai affievolito, da trent’anni a questa parte. Quella foto appesa alla parete, con lo scudetto cucito nel petto, riavvia lo scatto teso di Giorgio Chinaglia verso la palla. Il campione è irrorato di sangue, con il respiro accelerato che allarga i polmoni, i tessuti della pelle. Ci vorrebbe un reporter che si facesse carico di raccontare l’apparizione, che sapesse ricollegare la memoria alla fotografia, all’incarnazione di Long John, uscito dal passato alla sua maniera, con foga, irruenza.
Mi attacco alla bottiglia dell’acqua, bevo. Ha acceso il computer e ho cercato le immagini di Giorgio Chinaglia per conservarle in uno schedario. Lo schermo emette luce, mentre lo spazio colorato è un alone di calore. Chinaglia non è più dentro il sogno, ma lì, nelle immagini, e di lato, ancora vivo. Non parla, ma sembra più reale delle stesse inquadrature. La luce del mattino si posa sui suoi muscoli, sulle spalle possenti, sul collo corto, sui pantaloncini bianchi e sulla gambe, come premesse sull’alone che circonda l’andatura scomposta. Credo davvero di vederlo, oltre la volumetria della mia stanza, alla fine di ogni ombra.

Alessandro Moscè

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