ALDO MORO E LA LEGGE MORALE CHE SI E’ PERDUTA

Il quarantennale della strage di via Fani e della morte di Aldo Moro, riapre un capitolo tutto ancora da scrivere su ciò che accadde realmente in quei giorni, ma anche la possibilità di riprendere in mano il lascito dello statista, il suo pensiero, tramite l’Accademia degli Studi Storici Aldo Moro, in occasione del convegno internazionale “Il governo delle società del XXI secolo. Ripensando ad Aldo Moro”.  Tenutosi il 17-20 novembre 2008, l’accademia ha pubblicato l’antologia Scritti e discorsi di Aldo Moro. Nel discorso al Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana del 21 novembre 1968, Moro fu profetico, se si tiene conto della strategia della tensione, degli anni di piombo e dell’epilogo del 9 maggio 1978. Le parole sono fervide, anticipatorie, intense: “Tempi nuovi si annunciano ed avanzano in fretta come non mai. Il vorticoso succedersi delle rivendicazioni, la sensazione che storture, ingiustizie, zone d’ombra, condizioni d’insufficiente dignità e d’insufficiente potere non siano tollerabili oltre, l’ampliarsi del quadro delle attese e delle speranze dell’intera umanità, la visione del diritto degli altri, anche dei più lontani, da tutelare non meno del proprio, il fatto che i giovani, sentendosi ad un punto nodale della storia, non si riconoscano nella società in cui sono e la mettano in crisi, sono tutti segni di grandi cambiamenti e del travaglio doloroso nel quale nasce una nuova umanità. Vi sono certo dati sconcertanti di fronte ai quali chi abbia responsabilità decisive non può restare indifferente: la violenza, una confusione ad un tempo inquietante e paralizzante, il semplicismo scarsamente efficace di certe impostazioni sono un dato reale e anche preoccupante. Ma sono, tuttavia, un fatto, benché grave, di superficie. Di contro a sconcertanti e, forse, transitorie esperienze, c’è quello che solo vale e al quale bisogna inchinarsi: un modo nuovo di essere nella condizione umana. È l’affermazione di ogni persona, in ogni condizione sociale, dalla scuola al lavoro, in ogni luogo del nostro Paese, in ogni lontana e sconosciuta regione del mondo. E’ l’emergere di una legge di solidarietà, di eguaglianza, di rispetto di gran lunga più seria e cogente che non sia mai apparsa nel corso della storia”. Moro tendeva all’applicazione di una legge morale senza compromessi che dominasse la politica perché non fosse ingiusta e tardiva, ma “intensamente umana”. Il volto stesso di quest’uomo, in effetti, era intensamente umano, ma non valse a salvaguardare la dignità dell’Italia, né il realismo della storia politica. Fu proprio un compromesso mancato a decidere la sorte di Moro. Il moto irresistibile della storia andava verso un’umanità che lo statista predicava come fosse un sacerdote. La legge di solidarietà alla quale alludeva doveva essere il passo verso il cambiamento. Attese e speranze morirono con lui, in quei 55 giorni di indecisioni e in quel corpo disteso nella Renault 4. Rimane il pensiero attuale di un martire della Repubblica per cui lo Stato democratico fondato sul prestigio di ogni uomo, è uno Stato nel quale ogni azione è sottratta all’arbitrio e alla prepotenza. Aldo Moro voleva garantire il diritto di tutti: la libertà di pensare, di muoversi, di fare, di progettare. Oggi gli stessi principi sembrano inespressi e inglobano le istanze della società sfilacciata il cui principale diritto, quello al lavoro, è stato represso dalla crisi economica sfociata nel desiderio dell’autoaffermazione blanda, della rivendicazione di un potere di parte e dalla sistematica denigrazione dell’avversario politico. Qualcosa di completamente distante da una legge morale. La società liquida ha perso anche le parole che Moro voleva salvare. Aveva ragione Leonardo Sciascia, che nel suo libro scritto a caldo, a metà tra romanzo e saggio, L’affaire Moro (Sellerio 1978), citava, in apertura, Elias Canetti: “La frase più mostruosa di tutte: qualcuno è morto al momento giusto”.

Alessandro Moscè

 

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