GIANNI BRERA: I NEOLOGISMI DALL’OLTREPO

Ricordo un volto paffuto, ricoperto di barba e baffi sale e pepe, gli occhiali dalla montatura pesante calati sul naso, i capelli spianati all’indietro, più bianchi che neri. La camicia linda, la cravatta lenta, le bretelle larghe, una giacca scura, da intellettuale ottocentesco che si esprime cadenzando le parole dinanzi alla platea che ascolta: come fosse un teologo nordico dall’aria profetica. Il fumo invadeva la sala. Mio padre, che lavorava a Roma, mi diceva che c’erano dei ragazzi che all’Università La Sapienza si laureavano su di lui. Aveva un’eleganza distaccata, severa, quando lo vidi per la prima volta, credo alla “Domenica Sportiva”, spendere elogi misurati per la Juventus di Giovanni Trapattoni e per il Torino di Luigi Radice che nel 1976 si contendevano lo scudetto. Suscitava l’invidia dei “fratticchioncelli”, i cronisti che non sarebbero rimasti nella storia della “pedata”. Sono già venticinque anni che Gianni Brera, Gioânn Brera fu Carlo, se ne è andato (era il 19 dicembre 1992. Morì in un incidente stradale a Codogno, nel lodigiano). E’ stato il maggior giornalista sportivo italiano del XX° secolo: scrisse specialmente di calcio (amava il ciclismo e la boxe, ma spesso, da inviato, gli fu assegnata l’atletica leggera). Annotava non solo il resoconto della partita nell’arco dei novanta minuti, ma imbastiva un breve racconto antropologico che si basava sulle origini etniche dei giocatori, su un’ideale di schemi e tatticismo, sulla mitologia di un’immaginaria dea Eupalla. Scrisse sulla “Gazzetta dello Sport”, sul “Giorno”, sul “Guerin Sportivo”, su “Repubblica” sul “Giornale”. Si deve a Brera l’invenzione di molti neologismi: libero, centrocampista, contropiede, cursore, incornata, melina ecc. Se l’Italia è stato un paese storicamente occupato, conquistato, che ha subito l’oppressione dell’invasore, non può essere in grado di imporre una manovra offensiva, di dominio e possesso palla. Siamo costituzionalmente vocati a “non prenderle”, anche per le fattezze fisiche dei calciatori: minuti, scattisti, un po’ smargiassi, veloci a ripartire, a lanciare il contropiede, a far stancare l’avversario per colpirlo d’astuzia dopo aver alzato una “linea Maginot” davanti alla porta, con il difensore aggiunto dietro lo schieramento dei marcatori al posto di un attaccante statico e inutile alla manovra. Il calcio all’italiana, il “catenaccio”, si deve a Brera che lo teorizzò e all’amico Nereo Rocco, il paròn, che lo mise in pratica ai massimi livelli nel Milan degli anni Sessanta (conquistò campionati, Coppa Campioni e Coppa Intercontinentale). In precedenza il teorema fu applicato in Svizzera e da Gipo Viani nello stesso Milan e nella nazionale. Quando morì Rocco, Gianni Brera scisse parole sincere sul “Giornale”, il 21 febbraio 1979. “Rivera sta a Nereo come la callida volpe al toro manso. Ma bello è poterlo sentire figlio, alzare la voce a proteggerlo, lui toro, manso tutto de fora, estroverso, goliardo invecchiato, e torvo solo per gioco, l’altro tutto introverso, compito, abatin. Xe Rivera la nostra Stalingrado, si lagna di me Nereo: e si capisce che non può seguirmi neppure quando ho ragione. Rivera è il solo dei suoi che pensi calcio in grande stile: al diavolo se al pensiero non s’accompagna sempre l’azione”. Brera non amava i giocatori tecnici come Rivera appunto, gli “omarini”, i piedi buoni, ma chi sapeva economizzare le energie e dosarle per la squadra da gran faticatore (Angelo Domenghini tra gli altri). Saremmo dovuti essere sempre degli opportunisti, dei calcolatori utilitaristici, per vincere le partite specie fuori casa. E in effetti i tre mondiali che ci aggiudicammo nel 1934, nel 1938 e nel 1982 furono improntati usando questa logica. All’opposto c’era la scuola napoletana di Antonio Ghirelli che preferiva i calciatori tecnici, alla brasiliana, capaci di sopraffine giocate. Le differenze nascevano dalla mitografia. Gianni Brera era nato a San Zenone Po nel 1919, in provincia di Pavia, da una comunità contadina: “padano di riva e golena, di boschi e sabbioni”, cresciuto, diceva, tra le papere e le oche, distingueva i fondali dall’increspatura dell’acqua. Laureato in Scienze Politiche, l’enogastronomia (“la pacciada”), le sigarette (“mi ardono tra le dita”), i sigari (“vanno conquistati”) e la pipa (“sublime pacatezza”) erano le altre passioni al pari del giornalismo e della letteratura. Molto noti i romanzi scritti, diceva, in un mese: Il corpo della ragassa (Longanesi 1969); Naso bugiardo (Rizzoli 1977); Il mio vescovo e le animalesse (Bompiani 1983), oltre a varie bibliografie. Non ebbe ragione Umberto Eco nel definirlo “Carlo Emilio Gadda spiegato ai poveri”. Brera scriveva da uno stadio, spesso al freddo, dinanzi a migliaia di spettatori durante le sfide domenicali, con una macchina da scrivere portatile, o dettava da un telefono di fortuna. Doveva dosare il tempo, eppure non fu mai sfasato. L’uomo era sanguigno, colto, presuntuoso. Il cibo che preferiva evidenziava quella filosofia da gustare ritualmente come la lettura e la partita, da condividere con gli amici: il ragù d’oca della sua Bassa, il risotto ai cunfanon (le erbe selvatiche che piacevano a Giovanni Pascoli), l’ossobuco alla milanese, gli asparagi al burro nei ristoranti dell’Oltrepo dove beveva il vino rosso, mai freddo, pasteggiandolo con la carne arrosto e la cacciagione. Un vino fluido, razzente, affetto di retrogusti, tutt’al più un Franciacorta, lo stesso che ingurgitavano i suoi sodali più stretti. Ho incominciato a leggere Gianni Brera, voracemente, e solo per ragioni anagrafiche, a metà degli anni Ottanta (sono nato nel 1969). Compravo “Repubblica” non nel periodo dell’“abatino” Rivera; di “Rombo di tuono” Riva (il preferito); di “Bonimba” Boninsegna; di “Puliciclone” Pulici; di “Mazzosandro” Mazzola; ma nell’ultimo periodo della sua carriera, quella segnata da “Deltaplano” Zenga, da “Piscinin” Franco Baresi, da “Simba” Gullit, da “Piper” Oriali e da “Stradivialli”, termine affibbiato al centravanti della Sampdoria, il figlio della borghesia Gianluca Vialli. E quindi, su tutti, il “Divino scorfano”: Diego Armando Maradona. Ho recuperato molti dei suoi articoli, i libri, le interviste, i reportage, gli interventi televisivi. Sono anche io un Senzabrera, come scrisse in un memorabile pezzo Gianni Mura su “Repubblica” il 19 dicembre 1993, ad un anno dalla morte. “Ci manca quel suo alzarsi di contraggenio, quasi con un grugnito di ribellione interna, alla prima nota dell’inno di Mameli e quel suo applaudire togliendosi il cappello, l’inno dell’altra nazionale. E anche gli scappellamenti ostentati, col sorriso, a quelli che da sotto la tribuna stampa, o di fianco, gli urlavano contro perché la pensavano diversamente da lui”. Il suo linguaggio era ricercato, con un impasto di dialetto lombardo, di parlato sapiente, di ironia sdrammatizzante, di spiegazione illuminista, di impeto stilistico. Gianni Brera non era solo un giornalista, ma un esteta della parola con una conoscenza geografica dei luoghi dei quali scriveva, delle inclinazioni caratteriali degli abitanti (compresi i calciatori, ovviamente), degli sviluppi epocali che contrassegnavano una terra. Piaceva ai poeti Vittorio Sereni e Giovanni Giudici e ai romanzieri Mario Tobino e Piero Chiara. Quando criticava il metodo dell’arrembante Arrigo Sacchi, stavo dalla parte di Brera e non di “Righetto”, come chiamava il tecnico del Milan e della Nazionale arrivato da Fusignano per rimodellare completamente un ideale calcistico. Non fu il cambio di mentalità a rovesciare il gioco all’italiana, ma la riapertura delle frontiere e l’acquisto dei fuoriclasse, i migliori calciatori in circolazione in tutto il globo (Van Basten resta il più grande centravanti degli ultimi trent’anni). Sacchi non era un profeta, ma un intuitivo. Vinse pochissimo rispetto al valore tecnico delle formazioni delle quali disponeva. Fabio Capello, da allenatore (“Euclideo” per le capacità geometriche di impostazione quando era alla Juventus, “Gran Bisiaco” perché nato nella provincia di Gorizia dove si parlava una lingua veneta “bisiacaria”), con un gioco accorto e tutt’altro che forsennato, raccolse di più. Capello veniva dalla scuola italiana, non da quella europeista della zona che ormai prevaleva, negli anni Ottanta e Novanta, sulla difesa stretta ad uomo. Oggi il calcio è globalizzato e ci sono squadre che schierano undici stranieri tutte le volte. E’ cambiata l’Italia, non è mutato il football. Un meticciato composto di varie nazionalità non consente più di sposare una linea di confine tra questo e quel gioco. E’ la virulenza, la furia agonistica a mettere insieme una compagine di bianchi e neri, ovunque. Il calcio è diventato uno sport aggressivo per atleti con i muscoli gonfiati e il petto in fuori, non con la testa e con le gambe che dilazionano le proprie capacità e quelle degli altri. Non gli ho mai perdonato, da laziale, di aver definito l’Italia come l’unica squadra al mondo che ai Mondiali del 1974 puntava su un centravanti maldestro, Giorgio Chinaglia, ingobbito da una spalla più alta dell’altra. Long John aveva conquistato un campionato praticamente da solo dietro la protezione dell’allenatore buono Tommaso Maestrelli. Quelli erano anche gli anni in cui la stampa del nord e del sud si divideva con una nettezza di giudizio che contagiava il giornalismo sportivo. Brera non era esente dalla predisposizione ad esaltare le gesta di chi vinceva in Piemonte e in Lombardia. Non poteva soffrire una squadra improntata sulla cosiddetta “eresia podistica”, che caricava l’avversario a testa bassa e dove i difensori diventavano attaccanti, i centrocampisti retrocedevano, gli attaccanti pressavano a tutto campo. A Chinaglia si deve la prima vittoria a Wembley, in Inghilterra, dove ci consideravano dei “camerieri” (gran tiro deviato dopo una sgroppata sulla destra, Capello depositò in rete da due passi). Quel mondiale, invece, finì male e fu attribuito alle chinagliate il naufragio forse inevitabile. Mazzola, Rivera e Capello passeggiavano e i polacchi fiondavano da tutte le parti “uccellando”, boccaccescamente, un’Italia ingessata e senza anima. Su un punto, Gianni Brera aveva sicuramente ragione come scrisse all’indomani di Italia-Germania 4-3: il calcio è un’epica tra corsa e tiri e lo spettacolo è anche un sentimento che “salta in gola”.

Alessandro Moscè

 

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