SUL PORTO DI STEFANO SIMONCELLI

Stefano Simoncelli (nato nel 1950 a Cesenatico) è un poeta definito dai più schivo e appartato. Con Prove del diluvio (Italic peQuod 2017) ha avvolto il presente dentro il passato remoto per far emergere le figure genitoriali che non ci sono più, gli amici scomparsi (specie i poeti), i personaggi curiosi e dimenticati della sua Cesenatico, la voce orale di una Romagna malinconica e felliniana. Il tono lirico, melodico e narrativo, fa di questa silloge un dettaglio continuo, una memoria privata resa pubblica dove i sentimenti innervano un verso secco e conciso. Non bisogna dimenticare la provenienza di Simoncelli: dall’apprendistato nella gloriosa rivista “Sul porto”, alle collaborazioni con Benzoni e Sereni, Caproni e Pasolini. Su Benzoni ha detto esplicitamente: “Senza di lui non avrei mai scritto”. I poeti sono dei totem in Prove del diluvio, nel coraggio di rivederli e di ridargli fiato. Stefano Simoncelli è un poeta di sottrazioni, in effetti, abbandonato ad una dolce remissione di resoconti biografici, di descrizioni febbrili con le quali entra in collisione nel suo viaggio a ritroso. “Questa notte sono nella casa / dove ha abitato mio padre / e mangio un panino // in piedi con i suoi occhiali da sole / come se viaggiassi in pieno agosto / su un intercity superaffollato”. Oppure: “Non confiderò a nessuno che sono sceso / dove lui, ormai senza pace e respiro, / voleva costruire un ascensore // che lo riportasse su / in fretta, sempre più in fretta, / nella camera con vista sui platani”. Le sensazioni tattili e atmosferiche implementano un chiacchiericcio che contribuisce a ridestare il passato e la comunione tra i vivi e i morti: “Certi mattini in cui l’aria / è gelida e trasparente lo sento / che attraversa in ciabatte il cortile…”. Stefano Simoncelli utilizza anche brevi prose per rinvigorire l’adesso, per esempio per seguire le orme di Elenio Wagner Debiasi detto “il ballerino”, un mattocchio che lavorava all’Enel il cui soprannome si deve all’agilità con la quale si arrampicava lungo i tralicci dell’alta tensione. Abita da anni sul porto, “in una specie di palafitta che, nei giorni di vento, ondeggia come una barca in mezzo alla tempesta”. Dice che uno sconosciuto gli si è stabilito in casa e che giocano a carte, bevono. Quindi c’è la storia, epica, di Giuseppe Pantaleoni detto “il giocoliere”, un nano che da bambino odiava le virgole e rubava le figurine. “Dell’istituto per disabili in cui lo rinchiusero e da dove era fuggito dopo pochi mesi ricordava soltanto gli alberi altissimi di un parco che sorgeva al di là del muro”. Infine la madre, che cuce nel cono spettrale di una lampada, una scheggia di ricordo commovente che riporta il poeta agli anni struggenti: “Si dava due gocce di essenza / sulla tunica celeste di lino / e uscivamo per un gelato”. “Non ho più bisogno dei morti”, scrive Simoncelli, per dimostrarci, viceversa, che torna ancora nella casa sul porto, nel luogo di quella gioia in un’apocalittica tensione. C’è anche un tempo differente per ammonire la nostra epoca “sconvolta, frenetica e spietata”. La poesia sembra quietarla, come quel tenace e martellante pensiero che accompagna e compendia la voce stentata dei defunti, il “vento forestiero”, un giro nel buio delle ore: “Le volte che non riesco a darmi pace / mi penso con gli amici di un tempo / lungo una ronda notturna che va / per chioschi e bar all’aperto // di una Cesenatico estiva e quasi trionfale // come se non fossero spente / le feste, i fuochi e le luci sul mare. // Non fossero cenere quei corpi”.

Alessandro Moscè

 

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