DA ROMA A SASSOFERRATO: UN VIAGGIO DEVOTO

Nel viaggio lungo il tracciato di quella che è stata una via consolare, la Salaria, provenendo dalla Marca del sud arrivo in un’oasi intatta sull’Aventino. Ho pensato immediatamente che avesse ragione Arthur Schopenhauer, quando scisse in Parerga e paralipomeni (1851): “Riguardo all’apprezzamento della grandezza di un uomo, vale per la grandezza spirituale la legge opposta a quella della grandezza fisica; quest’ultima viene rimpicciolita dalla lontananza, l’altra invece ne viene ingrandita”. Mi fermo e rimango in piedi: non tira un alito di vento lontano dal traffico della “Roma dei topi e dei gabbiani” che si intrufolano irriverenti nell’immondizia cittadina, leggendo le cronache di questi giorni. Santa Sabina è una splendida basilica minore che molti capitolini scelgono per celebrare le nozze. In uno dei sette colli il passato architettonico restituisce la sua magnificenza, forme eleganti e sobrie, di origine paleocristiana, un complesso che nel tempo è stato inglobato nei bastioni imperiali. L’Orto degli Aranci, che fiancheggia Santa Sabina, è un incantevole orizzonte, un hortus conclusus di spiritualità e meditazione. Mi avvicino circospetto. Lo splendido portone in legno di cipresso ha resistito ad incendi, terremoti, crolli e saccheggi: è un collage di riquadri, una sorta di cinema muto per l’occhio che coglie le miniature nel racconto non consumato. La chiesa, appartenente all’ordine dei domenicani, all’interno conserva la Madonna del Rosario del Sassoferrato, che da venerdì 4 agosto è esposta alla mostra “La Devota Bellezza” nella città che ha dato i natali al maggior interprete dell’arte di riferimento cattolico dal 1500 ad oggi, secondo Federico Zeri. Le grandi finestre e la navata centrale mi suggeriscono l’idea di un’isola riflessa, di un luogo ameno che irrompe nel caos della città, degli accadimenti politici, pubblici. Qui si sdogana l’immagine di una Roma in fase di disfacimento e che vive disseminata, appunto, in isole salvaguardate. Il caldo torrido di questi giorni getta un’atmosfera rifulgente che balugina anche all’interno della basilica dove la decorazione musiva, le cappelle barocche e le colonne elevate aprono squarci di luci e ombre, di lucentezza al buio. Il Sassoferrato, qui, è di casa. La Madonna del Rosario, infatti, è considerata l’opera più celebre di Giovan Battista Salvi, un capolavoro osannato specie nell’Ottocento, come annota Franҫois Macé de Lépinay, il quale specifica che è discutibile il formato iniziale dell’opera. Che sia stata successivamente ingrandita da altri? Colpisce, del quadro, l’intenzione devozionale, la carica evocativa di San Domenico e Santa Caterina, nonché degli angeli: riverenti, perfino abbandonati nel raccoglimento. La Madonna e il Bambino vengono accerchiati da una gestualità devota, serenamente partecipata. Dalla tela traspare il silenzio che cade dall’alto al basso, fino a toccare le vesti dei Santi in un’aria circonfusa di bene. Il panno della Madonna, con l’alternarsi del blu delicato e di un rosso vagamente spento, attribuisce un effetto ottico appena velato. Eppure quelle pieghe hanno il respiro del Rinascimento, di un qualcosa che riprende anima e corpo dopo un periodo cupo. Da Roma a Sassoferrato si accende un percorso della mente, con la Madonna e il Bambino che offrono se stessi nel simbolo del rosario legato ad una cordicina. La trasmissione della fede è anche nel rituale della preghiera, dei 15 misteri contenuti nell’oggetto, seppure in questa opera mi sembra che il fascino della corona sia solo gaudioso, un vero e proprio momento di grazia accentuato dalla presenza dei fiori. Sono di fronte ad un compimento, nei passi che conducono all’opera dentro la chiesa romana e ora al Palazzo degli Scalzi nell’entroterra marchigiano. La bellezza dei soggetti dipinti è elegante e contratta, ma quella Madonna sa penetrare gli occhi di chi la guarda in una piccola pozza d’incantamento. E’ questo, in effetti, il dono del Sassoferrato, contemporaneo adesso più di ieri, più che nel suo secolo che virava in una dimensione magniloquente con l’esuberanza del Barocco. Fuori, nell’area ristretta di Piazza Gramsci, il sole proietta una cappa di calore a picco mentre due visitatori mi salutano entrando alla mostra. Hanno volti seriosi che si adattano al contesto epocale, come accedessero nella basilica di Santa Sabina o in una delle tante chiese da dove provengono questi capolavori senza tempo, sospesi nel secolo dei secoli. Una giovanissima coppia seduta al bar si volta verso il sole ad occhi chiusi, in un abbaglio dorato, e per un attimo ho l’impressione di rivedere gli angeli della Madonna del Rosario in camicia bianca.

Alessandro Moscè

 

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