GLI STUDENTI E GIORGIO CAPRONI

Non se lo aspettava nessuno un tema alla maturità che richiamasse i versi di Giorgio Caproni, uno dei maggiori poeti italiani del Novecento, dalla rigida scelta metrica e dalla forza espressiva figlia di una tradizione forte, non consunta (fu anche un finissimo traduttore di Baudelaire, Flaubert e Maupassant). Ha ragione il narratore Guido Conti quando sottolinea che gli studenti escono dai licei e non sanno neppure chi sia Eugenio Montale. Figurarsi Caproni: non lo avevano mai sentito nominare. I programmi scolastici non arrivano a sondare la nostra contemporaneità e anche un classico del suo secolo rimane escluso da ogni approfondimento tematico. Peraltro l’inquadramento di un Caproni ecologista, francamente, è assai riduttivo, se non sbagliato. Il livornese rimane un grande poeta di sentimenti, melodico, lirico. Un poeta esistenziale, di luoghi, di comunioni tra i vivi e i morti. Completamente distante dalle sperimentazioni sintattiche, ha saputo trarre allegorie e canti narrativi a partire dagli esordi negli anni Trenta, dove nei versi vengono descritti la pioggia, il fieno, i prati, il treno, il tram, le fanciulle: dunque un’immagine che si fa correlativo oggettivo. Sereni comunica concretamente e coscientemente, con una discrezione che rasenta il sussurro evocativo, arcaico. L’amore e la morte, in un’elevazione nostalgica, si avvicinano quasi fossero parenti strette. Con la morte della madre, per esempio: Anna Picchi viene cercata in un cammino struggente e visionario nella raccolta Il seme del piangere (1952): “Anima mia, sii brava / a va in cerca di lei. / Tu sai cosa darei / se la incontrassi per strada. / E allora chi avrebbe detto / ch’era già minacciata? / Stringendosi nello scialletto / scarlatto, ventilata / passava odorando di mare / nel fresco suo sgonnellare”. Solo per un’escursione estemporanea Giorgio Caproni ha scritto i Versicoli quasi ecologici (1972). Ma al poeta appartiene altro e il tema assegnato dal ministero è sostanzialmente ambiguo perché riduce l’autore a ben poco nell’ambito di una poetica corposa e variegata. Sarebbe stato più indicativo celebrare un sentimento, un archetipo della letteratura caproniana, piuttosto che il riscatto della natura violata dall’irruenza umana. Caproni amava le rime chiare, usuali e ventilate. Parole non crepuscolari, di un amore filiale inattaccabile, gli avrebbero reso più onore. Ancora da Il seme del piangere: “Annina è nella tomba. / Annina, ormai, è un’ombra. / E chi potrà più appoggiare / l’orecchio al suo petto, e ascoltare / come una volta il cuore, / timido, tumultuare?”. La verità del poeta della luce e dei chiaroscuri non sarà appresa dagli studenti, forse neppure da quelli che andranno all’università e si iscriveranno a Lettere. Il poeta: questo perfetto sconosciuto dalla veste sciamanica che nessuno legge più.

Alessandro Moscè

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