TRE SECONDI PRIMA E TRE SECONDI DOPO

Si parla di incuria, di errore umano, di negligenza, di casualità. Non so che cosa abbia provocato realmente il crollo, ma giovedì 9 marzo intorno alle 13, un cavalcavia dell’autostrada A14, all’altezza di Castelfidardo, tra Loreto e Ancona sud, è imploso ed ha provocato la morte di due coniugi. Una Nissan bianca intrappolata sotto quel pezzo di strada staccatosi nel mezzo, rappresenta l’urlo muto degli italiani e dei marchigiani in particolare. Emidio e Antonella Diomede, che viaggiavano a bordo dell’auto, sono deceduti sul colpo, mentre tre operai del cantiere risultano feriti, anche se non gravemente, dopo un volo di sei metri. Non si capisce perché il cavalcavia fosse chiuso e l’autostrada sottostante no. Per questioni di sicurezza sarebbe stato meglio bloccare anche il traffico della A14. Provvedimento ovviamente adottato subito dopo l’incidente, mandando in tilt la circolazione con ingorghi e deviazioni obbligatorie. Colpisce l’”attimo fuggente”, che in un celebre film fungeva da momento propizio. Stavolta non è stato così. Un veicolo supera il ponte tre secondi prima, un altro inchioda tre secondi dopo. Altre morti sono state evitate, mentre quei pochi attimi sono stati, si fa per dire, il bersaglio maligno del ponte, perché non rientravano nel prima e nel dopo, ma nei fatidici tre secondi del crollo. Un niente, un’eternità. Si muore facilmente, stupidamente. Il destino sembra crudele non solo perché i martinetti del cavalcavia non hanno retto l’urto, ma perché la tragedia aggredisce come il coccodrillo che apre la fauci e dal silenzio passa alla ferocia senza preavviso, senza che se ne percepisca il senso. Tre secondi prima e tre secondi dopo dieci persone si sono salvate, ma non i due coniugi. Il caso, dicevamo. Tutti hanno pensato che poteva capitare al coniuge, al figlio, al padre, alla madre, a noi stessi. Eppure non sappiamo renderci conto di che cosa sia la morte, quando arriva. Come per la scelta volontaria del dj Fabo, così per questa morte accidentale e assurda di due persone che si recavano in ospedale per un controllo medico. Sosteneva Sigmund Freud: “La propria morte è irrappresentabile, e ogni volta che cerchiamo di farlo, possiamo costatare che in realtà continuiamo a essere presenti come spettatori. Perciò la scuola psicoanalitica ha potuto anche affermare che non c’è nessuno che in fondo creda alla propria morte. Nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità”. La morte riguarda sempre l’altro, è vero, specie quando la commentiamo con enfasi, pubblicamente. Per questo ci spaventa. La scampiamo, ma non la digeriamo. Non accettiamo mai una fine eludibile, tanto più se avviene in circostanze fasulle. Se per qualcuno la morte è un ponte per “un di più”, stavolta, nell’impietoso gioco di parole, è stata un abisso che si poteva e si doveva evitare. Due morti che si sommano a quelle nei viadotti crollati a Palermo, ad Agrigento, a Lecco. La giustizia, ora, faccia il suo corso.

Alessandro Moscè

 

 

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