I MURI DELLA RECLUSIONE

Fa specie che proprio nel Giorno della Memoria si torni a parlare insistentemente di muri divisori. Viene da pensare ai ghetti, ai campi di concentramento, al Muro di Berlino, alla guerra fredda, ad una divisione imposta, dopo il secondo conflitto mondiale, da spartizioni geografiche. Ora la notizia che il Presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump abbia firmato un ordine esecutivo per iniziare la progettazione di un muro al confine col Messico, e che avrebbe come obiettivo quello di interrompere l’immigrazione clandestina, ci fa sobbalzare. Trump ha preso questa scelta nel corso di una visita al dipartimento della sicurezza nazionale, durante la quale ha firmato anche un altro atto per tagliare i fondi alle cosiddette “sanctuary cities”, cioè le città che scelgono di non considerare come reato l’immigrazione clandestina. La costruzione del muro con il Messico è stata una delle più controverse promesse fatte durante la campagna elettorale, ma quasi nessuno ha preso sul serio la proposta, anche perché gli esperti la ritenevano inutile e dal costo di decine di miliardi di dollari. Leggiamo che il confine fra Stati Uniti e Messico è lungo circa tremila chilometri: se davvero l’amministrazione Trump andrà fino in fondo, è probabile che non costruirà un muro, ma si limiterà a rinforzare le barriere esistenti e ad aggiungere recinzioni. I muri sono pericolosi, non solo perché dividono, ma perché generano scontri. Io di qua e tu di là. Popoli incompatibili perché diversi, distanti e inconciliabili. Il muro, ogni muro, è un vuoto di parole, un dialogo strozzato, una protezione dalla paura e dalla diffidenza, ma anche un atto altero, tracotante. Italo Calvino diceva: “Se alzi un muro, pensa a ciò che resta fuori”. Per Oriana Fallaci un muro era da considerare “un’idiozia istituzionalizzata”. Ci piace citare una frase di Fernando Pessoa tratta da Il libro dell’inquietudine, uscito postumo nel 1982: “Se la vita non ci ha dato altro che una cella di reclusione, facciamo in modo di addobbarla, almeno, con le ombre dei nostri sogni, disegni multicolori che scolpiscono il nostro oblio sull’immobile esteriorità dei muri”. Trump non ha inventato nulla, ma mentre in Europa ci cerca di allargare i confini e di iniziare finalmente una politica comunitaria (non solo finanziaria), negli Stati Uniti la logica del protezionismo chiude i confini. Abbiamo l’impressione che la politica mondiale proceda a tentoni, tra democrazie traballanti e nazionalismi esasperati che privilegerebbero il consumatore e non il cittadino. Alzare un muro è la soluzione ideale per ridurre i flussi migratori e tutelare il commercio, nell’epoca della globalizzazione dove si può comprare un oggetto su Internet e averlo in casa dopo poche ore? Un muro, non è forse una reclusione claustrofobica per chi lo costruisce e non solo per chi lo subisce?

Alessandro Moscè

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