IL PROVINCIALE E IL PROVINCIALISMO

Spesso, specie nella provincia italiana, si commette l’errore di ritenersi il centro del mondo anche se si rappresenta una marginalità, un punto invisibile nella cartina geografica, uno come tanti. Questo atteggiamento contagia sia i politici che i cittadini che non hanno un ruolo pubblico. La provincia è un immenso patrimonio culturale, ma la difesa campanilistica di un territorio spesso è negativa, perché indica una chiusura e un male della coscienza, un limite nella percezione del tutto, del grande rispetto al piccolo. Sarebbe come dire: è bello solo ciò che mi riguarda in prima persona. E’ vero quello che sosteneva Eugenio Montale: “Le innaturali concentrazioni metropolitane non colmano alcun vuoto, anzi lo accentuano. L’uomo che vive in gabbie di cemento, in affollatissime arnie, in asfittiche caserme è un uomo condannato alla solitudine”. Ma è altrettanto vero che ogni luogo ha un suo limite che inizia dove si tracciano i confini di un altro luogo, che ha altrettante ricchezze e prerogative. La provincia è un mondo, il provincialismo è una paura che porta a difendere ciò che non si conosce: l’ignoto che spaventa. Mario Soldati identificò questo male con un aggettivo: gretto. Il provincialismo è tipico dell’uomo bloccato psicologicamente, spiritualmente, tanto da indurre Ezra Pound a parlare di qualcosa che supera l’ignoranza. “Il provincialismo è volontà di uniformità. E’ una malevolenza latente, attiva, di cui l’odium teologicum ne è solo un aspetto”. E’ anche ignoranza del costume degli altri, separazione, diffidenza. Il provinciale può respirare un’aria globale, il provincialismo mistifica la realtà, la distorce, fino a farne un vezzo sciocco e una consuetudine banale. L’età della globalizzazione non ha spezzato questo limite, ma anzi sembra averne accentuato il senso. Quasi che l’italianità sia un marchio contro tutto ciò che è diverso e che proviene da fuori. Il diverso suscita sospetto, competizione. La nostra provincia non ha nulla da invidiare alla grande città. Ma è quel locale che fa rima con universale, non quel localismo che fa rima con particolarismo. La letteratura ce lo insegna. Senza la provincia non avremmo avuto Cent’anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez, un viaggio meraviglioso in un fazzoletto di terra dove realtà e finzione si incontrano e si fondono. Aracataca è un villaggio che si regge su piccole cose, con la sua piazza, i suoi bar, con un’economia poverissima, basata solo sull’agricoltura. Non si discosta da Acitrezza, la patria narrativa di Giovanni Verga, o per restare al secondo Novecento, da Livorno (Caproni), dalla Garfagnana (Luzi), da Parma (Bevilacqua), da Ancona (Scataglini). Attenzione, dunque, a distinguere un’entità governativa substatale da un’altra. La linea di demarcazione è orizzontale, non verticale. E’ un’estensione, nulla di più. Il provinciale (Feltrinelli) di Giorgio Bocca rimane forse la più alta testimonianza scritta di questo significato. Una narrazione da riscoprire, da leggere nel tessuto connettivo del nostro Paese e in settant’anni di vita italiana.

Alessandro Moscè

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