I POETI DORMONO

Il Premio Nobel conferito a Bob Dylan ha provocato, come era facilmente prevedibile, un’ondata di critiche: gli italiani sono manichei e si dividono su tutto, figurarsi su un titolo onorifico e sullo scettro dato dall’Accademia di Svezia ad un cantante. Temo che abbia ragione Lawrence Ferlinghetti, il grande vecchio della cultura ribelle, pubblicato in Italia, di recente, da Minimum Fax: non perché ritenga che Dylan, con la musica, sia arrivato dove non è riuscito nemmeno Allen Ginsberg, perché altrimenti ricadremmo nello stesso errore, e cioè di attribuire alla canzone d’autore il riconoscimento di poesia. Le due cose sono ben distinte, perché la poesia è già musicale, la canzone ha bisogno dell’accompagnamento della strumentazione per acquisire un suono. Dire che quello di Dylan è il Nobel di una generazione in favore di colui che incarna l’unica eredità della Beat Generation nel XXI secolo, è un’altra provocazione altrettanto fasulla, come asserire che Bob Dylan ha scritto i migliori poemi surrealisti, degni di un William Blake. Ferlinghetti punta il dito sui poeti che dormono, che non partecipano alla vita sociale e civile di un Paese. Su questo aspetto non sbaglia. “Vedo solo un grande sonno”. E’ vero, i poeti sono estraniati, ferocemente autoreferenziali e intenti a limitare il loro raggio d’azione per lo più sulla loro opera, per un pubblico  di addetti ai lavori e in una sorta di riserva mentale. Ai poeti serve fare altro, oltre che la poesia onesta, come invocava Umberto Saba. Serve loro di intervenire anche dove non è in ballo il passato, il presente e il futuro della poesia, della loro poesia. Dunque occuparsi di altro nel ruolo, scomodo, di intellettuali. Quanti poeti scrivono sui giornali? Quanti lo fanno su tematiche non letterarie? Bisogna riacquistare un’autorità da letterati, perché non sono finiti i punti di riferimento, ma è cambiata la società. Una volta i nostri intellettuali erano invadenti, adesso hanno scelto il silenzio. Una volta c’era Pasolini, c’era Calvino. Oggi c’è Crozza, c’è Celentano. Moravia interveniva moltissimo sull’ambiente, sulla salute, sulla politica internazionale, sui diritti umani, sulla tutela delle minoranze. Uno degli aspetti più noti della mobilitazione determinata dalla Grande Guerra fu la partecipazione del mondo dell’arte, per esempio di Filippo Tommaso Marinetti e Giuseppe Ungaretti, per citare due nomi. Più indietro nel tempo c’è stato Gabriele D’Annunzio, dalla sua postazione imperitura. L’intellettuale può partire dal presupposto che è possibile indicare alternative. Lo faccia anche il poeta. I nuovi canali di comunicazione, i social network, se hanno un’infinità di limiti, conservano, però, una via inedita della parola, un mezzo per dare voce al senso della realtà, ad una prospettiva più articolata di ciò che viene riferito fulmineamente per comunicare. Nel terzo millennio l’impatto sociale del poeta è pressoché ridotto a zero. Forse è solo una mancanza di coraggio. Ho letto sul “Fatto Quotidiano” che Michela Murgia, una narratrice tra le migliori delle nuove generazioni, ha 80.000 amici su Facebook. Dice la sua, senza reticenza, dialoga interattivamente e frontalmente. La poliformità è di certo un bene.

Alessandro Moscè

sonno

 

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