COME SALVARE LA LETTERATURA DALL’OBLIO

Non leggevo nulla a scuola e non approfondivo alcuna tematica letteraria. Scrivevo versi come tutti i giovani, ma non avevano nulla a che fare con lo studio liceale, dal quale ero profondamente distaccato. Cercavo una lingua, una mia lingua, attraverso la quale esprimermi, e non la trovavo. Si discute spesso su come far amare la lettura ai bambini, su come incrementare la scoperta dei libri letterari, la vendita stessa dei testi. Di fatto la nostra contemporaneità rischia di essere desertificata da una mancata attenzione proprio del mondo scolastico e universitario che non si occupa degli scrittori del secondo Novecento e del terzo millennio e che si disinteressa di chiunque scriva, abbozzi poesie, racconti. Non è un mistero che, come più volte sottolineato in questo blog, gli insegnanti non leggano e non conoscano il loro tempo attraverso gli autori, e che dunque non siano propensi ad incoraggiare l’immersione nella letteratura intesa soprattutto come esperienza di vita. Non va meglio nelle università: ho amici che insegnano in vari atenei, da Milano a Napoli, e mi segnalano che le risorse intellettuali e materiali impiegate per la promozione dei contemporanei sono decisamente poche. Raramente viene ospitato un poeta in una scuola o in un dipartimento di italianistica. I libri rimangono confinati in uno spazio ristretto usufruito solo da pochi addetti ai lavori. La poesia non è più considerata un prodotto di mercato e anche i romanzieri faticano ad uscire dalle catacombe. Per questo sono tra coloro che incoraggiano recital, festival, incontri con l’autore e premi letterari, specie quelli che si compongono di una giuria popolare alla quale vengono dati in dotazione i volumi. Se la letteratura italiana sopravvive ancora è anche per l’impegno di chi contribuisce a farla respirare dotandosi di capacità e mezzi organizzativi. E’ necessario raggiungere un pubblico, favorire la diffusione dei libri. Nascessero tanti festival come quello di Mantova, o iniziative emulative di ciò che viene realizzato a Pordenone o a Modena, la stessa poesia si salverebbe dall’oblio. I poeti hanno un difetto costituzionale, l’autoreferenzialità. Se incominciassero a pensare al bene comune, al movimento di un pubblico della poesia come strumento cognitivo oltre l’attività della propria scrittura, le cose cambierebbero. Vengo da una terra, le Marche, dove Franco Scataglini, dalla sua residenza (che divenne anche un programma radiofonico su Radio Tre regionale nel biennio 1980-1981) coniugava la poesia ad un mezzo di comunicazione di massa, interrogando il senso delle parole da una periferia come se fosse il centro e viceversa. Intorno a Scataglini e ai giovani redattori (Gianni D’Elia, Massimo Raffaeli, Francesco Scarabicchi) si raccolsero allora le forze emergenti di una straordinaria generazione di intellettuali e artisti insieme con la voce, in ideale controcanto, di maestri già riconosciuti (da Betocchi a Caproni, da Roversi a Scalia e Turoldo). Che cosa significa scrivere/pensare/vivere qui piuttosto che in un astratto altrove? Questa era la domanda che poneva Franco Scataglini. Ad Urbino Gualtiero De Santi e Umberto Piersanti facevano altrettanto. Lo stesso a Macerata Guido Garufi e Remo Pagnanelli, uniti da una sinergica profusione di energie. La poesia si spezza come il pane e si serve a tavola, diceva spesso il poeta anconetano nelle conviviali. E come non ricordare la fortunata rassegna “Poesia in giardino” ideata da Scataglini e proseguita nella prassi plurale di libri, convegni, letture pubbliche e seminari, in favore di uno sguardo che chiamasse ad esprimersi, acquisendo un patrimonio di ascolto e definendo, nel frattempo, un ruolo per i luoghi geografici? E’ dai luoghi che bisognerebbe ripartire, per il bisogno di scoprire nel canto e nella narrazione un mondo sepolto: da Dante a Petrarca, a Tasso, a Leopardi, a Montale fino ai giorni d’oggi nella storia e nella geografia delle letteratura, come insegnava Carlo Dionisotti.

Alessandro Moscè

 

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