FILIPPO DAVOLI: LA LUCE E UNA MISTERIOSA ALLEGRIA

Filippo Davoli, nato a Fermo nel 1965 e residente a Macerata, è un poeta di sensazioni fisiche, terrigeno, che trattiene solo ciò che è necessario, per dirla con Massimo Raffaeli, il quale ha curato la prefazione della raccolta dal titolo La luce, a volte (Liberilibri 2016). Un poeta, dunque, del tutto estraneo a quella palingenesi di tipo sperimentale e all’input avanguardista di questo convulso terzo millennio. Non è la prima volta che una luce evidentemente di derivazione luziana (cristiana), per Davoli si fa nucleo atomizzato (si pensi a La luce della luce edito da Nuova Compagnia Editrice nel 1996, esattamente vent’anni fa). Una luce come balsamo, una luce consolatrice che visita e benedice, abbrivio di una vera e propria anima. Ma l’elettrone di questa scrittura non si limita ad assimilare solo ciò che è “nudo allo sguardo”. Davoli tende ad “innalzare” la sua vista che allarga l’orizzonte e si proietta verticalmente, che diventa visione e stringe una sorta di materia trascendente, fortemente sentita, e una retrospettiva meditata, come è evidenziato nella nota di Raffaeli. Il dato sensibile, piano, sfuma sin dai primi componimenti tra “il soffio della nuvola azzurra” e “l’umidità violenta”, tra “l’afa notturna”, “il bellissimo mare” e “la misteriosa allegria”. Il poeta fa uscire la parola dagli anfratti della sua città, del suo borgo, delle sue strade, delle pareti domestiche delle case di quartiere, come fosse una guida rivelatrice, una mappa cartografica da tenere in mano. Il chiarore della neve, la caligine, un “blando miracolo” ricordano l’altro maceratese che si è mosso tra ombre e orme in epoche indefinibili: l’indimenticato Remo Pagnanelli. C’è un fondale, nei versi, che si riempie del presente, del contingente, di un reagente filosofico, esistenziale, come scarto della ferialità. La parola è sì un mezzo per addentrarsi negli spazi e nei luoghi, per insinuarsi nelle piazzette, nei bar, tra i muri terrosi dell’inverno, ma c’è di più. La morte, spesso richiamata, è un fine, non solo un dato empirico, circostanziato. E’ una domanda, una verità transitoria: “Per chi il destino chiama ad un rimpianto / di altri, dopo la loro morte, bisognerà / forse morire? Rivolgere / ad altro passo lo sguardo, questo dovrà / il cuore compiere”. L’opacità delle ore di Davoli, il lucore, e non solo la luce, è un’impressione a freddo, di un dopo. Un’immagine dantesca si fonde con la visionarietà presaga che torna a sprazzi, con il “pieno del vuoto” leopardiano. E’ qualcosa che spinge Davoli a catalizzare il mondo ben oltre le sue pupille incandescenti. La luce si traduce in un verso nutrito di silenzi, di “accordi dissolti nell’aria”, dove la paura della morte fa temere per sé e per gli altri: quindi non occulta il dolore, ma anzi lo intensifica gradualmente. Il poeta vede la nuova gioventù e vorrebbe essere uno di quei ragazzi che camminano tra gli incantamenti giornalieri dove si parla con la luna, dove il segreto è in un’apparizione traslucida, incompiuta (altra eco di Pagnanelli). Filippo Davoli è, inoltre, un poeta di affetti familiari. Molto intensa la poesia dedicata alla madre nello scandaglio dell’umano non più reticente, in una percezione di perdita e dissolvimento. “La guardo poco, in realtà. Mi vergogno / che sappia certe cose di me che non le ho detto. / Dicono alcuni che i morti vedono tutto / e solo non possono cogliere i pensieri”. La concretezza di Davoli innesta una volta nell’aria dove si respira l’odore del rosmarino, della pioggia, del cotto, del verde delle persiane, degli oggetti stantii. Il presente e il passato si “compiono” contemporaneamente: non sono due tempi distinti, separati, così come le persone scomparse che si aggirano sbirciando, fissando il vuoto: “Non le voci mi tornano, mai. Piuttosto le ombre / che strusciano da una camera all’altra in vestaglia / nell’ora della siesta”. L’anamnesi di Filippo Davoli, come sottolineato da Davide Tartaglia e da Edoardo Manuel Salvioni nell’antologia Sulla scia dei piovaschi (Archinto 2016) certifica l’aderenza autentica e sostanziale alla vita e a un “vizio di scrittura” che smaschera il suo essere civiltà e passione. La compostezza sostanzialmente classica della forma lirica di Davoli, richiama la grande tradizione novecentesca che va da Saba a Raboni, passando per Sereni, Gatto, Caproni, Benzoni, alcuni tra i poeti più affini alla lingua poetica che rinuncia ad un appiglio gergale e si eleva a voce anti-programmatica, non costruita in laboratorio, ma che prende le mosse dalla scansione delle cose. Rimane una stasi che si muove nelle stagioni, nelle sere italiane, nel “tragitto lungo e breve dei giorni”, senza alcun idealismo, nell’ossessione memoriale, tra fantasmi disseppelliti che provengono da un altro tempo. “Non possiamo fare nulla, nemmeno posso / valicare lo spazio grande dell’illusione. / Ma il sogno è libero, lo sguardo rapace / non riesce a sfiorarne minimamente la grazia. / E tutto è volo, tutto è apertura”.

Alessandro Moscè

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