LA CRISI ECONOMICA NON E’ ENTRATA NELLA LETTERATURA

E’ sul fronte produttivo in senso materiale che l’Italia continuerà a battersi per uscire dalle secche. Le nostre città rimangono ancora legate ad un modello standard, ad una crisi perdurante, ad un ambito imprenditoriale uguale a quello che l’ha caratterizzato per decenni. La trasformazione doveva e deve ancora avvenire in campo industriale (primo settore), perché si possa risalire la china. Il resto (cultura, turismo, commercio) rappresenta un bilanciamento, un’offerta complementare ma insufficiente a colmare il vuoto. Accanto all’inflazione reale, che in questi anni è andata raffreddandosi, ce n’è una nascosta, che si accende quando i redditi vanno ancora più piano. È proprio quel che è successo fra 2010 e 2014, almeno per ciò che riguarda gli introiti diffusi pochi giorni fa dal ministero dell’Economia: l’Italia delle dichiarazioni continua ad essere spaccata in due e la lunga recessione ha colpito a nord come a sud. Vivo a Fabriano, nelle Marche. Negli anni Ottanta questa città aveva il reddito pro capite più alto d’Italia. L’internazionalizzazione ha spazzato via il benessere e nel 2016 il 36% della popolazione attiva è disoccupata. Dice Francesco Casoli, il patron di Elica (leader mondiale nella produzione di cappe da cucina): “I clienti cambiano. E con loro devono cambiare i nostri prodotti, i nostri servizi e il nostro modo di vendere”. Il miglior imprenditore fabrianese si appella all’innovazione, alla tecnologia, al design, al know-how. Quantità e qualità del lavoro sono la base per un’inversione di tendenza che finora non c’è stata. Afferma ancora Casoli, provocatoriamente: “Siamo a caccia di talenti. Vogliamo persone complicate e difficili da gestire”. Il tema è fascinoso. Appare strano che la crisi economica ed occupazionale non abbia portato, nella letteratura italiana, all’elaborazione di grandi romanzi. Sulla “generazione allargata nel pieno di un disfacimento anche sociale” (Mario Vargas Llosa), non si segnalano autori di rilievo. Bisognerebbe interrogarsi sul perché. Possiamo azzardare un’ipotesi di massima. C’è il timore reverenziale di addentrarsi in un universo sconosciuto, ad uso degli addetti ai lavori, degli economisti. La globalizzazione si rivela un fattore politico, finanziario, ma non letterario. Utilizza teorie e metodi scientifici, regole scritte di interazione e di comprensione dei fenomeni. Il rischio per i letterati, è di allontanarsi dalla realtà che assilla il Paese, di ribadire un attrito inutile che ha spesso contraddistinto l’Italia: l’inconciliabilità e l’incomunicabilità tra il lavoro immateriale e quello di chi produce beni materiali. Penso a Paolo Volponi, alla sua utopia, al romanzo La macchina mondiale (Garzanti 1965). Nel bellissimo dialogo con Francesco Leonetti in Il leone e la volpe (Einaudi 1995) ricorrono spesso aggettivi eloquenti di una convinzione, anche politica, per lo scrittore che divenne senatore del Pci, da indipendente, nel 1983: il lavoro industriale, specie computerizzato (presago di un futuro imminente) risultava imprendibile e seguiva ad una fase storica costellata di privazioni, fratture, insensatezze, disagi. Volponi, anche oggi, risulta assolutamente contemporaneo: il capitalismo e il possesso urtano con la nuova modernità, così come l’impossibilità relazionale dell’uomo del capitale con l’uomo del sogno. Nel volume Il leone e la volpe Volponi constata: “Le società modernizzate sono basate sull’esaltazione dell’individuo, sulla sua atomizzazione e concepiscono solo riduttivamente un’etica: quella edonistica e tecnologica, col successo individuale sulla natura e sugli altri uomini”. Manca un’idea di bene comune che riscatti le tensioni sociali. La dicotomia dolcezza-furia risulta il risvolto impossibile di Volponi, come conciliare l’uomo della macchina con l’uomo che sosta tra la natura dei boschi, che sa programmare uno sviluppo razionale in un asse improbabile con il tempo del ramarro, o di quell’antica moneta scomparsa come un ferro vecchio. Ci chiediamo: gli scrittori che si interrogano come faceva Paolo Volponi, dove sono in questo terzo millennio?

Alessandro Moscè

italianicrisi

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