GIORGIO CHINAGLIA E’ IL GRIDO DI BATTAGLIA

Se ne è andato anche l’olandese volante, Johan Cruijff, un fuoriclasse caratterialmente come molti degli anni Settanta: irriverente, protervo e indomito, ha fatto sognare i tifosi dell’Ajax e del Barcellona, ogni esteta del calcio. Lo si trovava ovunque con quella corsa armoniosa, a presiedere le zone del campo con facilità d’esecuzione, con la carezza della palla d’esterno destro e sinistro. Era a suo agio nel ruolo di attaccante, ma spesso iniziava le manovre da dietro o sulle fasce rendendo la vita impossibile ai difensori che non sapevano da che parte sarebbe sbucato sfera al piede, a testa alta. Ho scritto nel romanzo Il talento della malattia (Avagliano 2012) che ogni bambino ha il suo eroe. Si tratta, di solito, di un personaggio dei fumetti o d’avventura. Capitan America, Batman, Superman, Goldrake, Mazinga Z e l’Uomo Ragno sono stati i più ricorrenti modelli per la generazione nata tra gli anni Sessanta e Settanta. Quando un eroe esiste in carne ed ossa, allora diventa facilmente un mito, specie per chi racconta lo sport e coglie le gesta dell’uomo, con le sue debolezze e i suoi umori, le sue prodezze e i suoi vizi. Il mio mito era Giorgio Chinaglia (che di Cruijff è stato compagno di squadra nei Cosmos di New York), il centravanti della Lazio del primo scudetto, nel 1974. Un campione amato e discusso, il palinsesto della squadra più “pazza” di sempre nella storia del calcio italiano, che in prima elementare fantasticavo scendesse da una botola mentre aspettavo che mia madre venisse a prendermi all’uscita della scuola. La seconda parte della narrazione ha dei toni drammatici per la forte connotazione di una vicenda vissuta in prima persona: sono stato il secondo caso di guarigione avvenuto in Italia, fino alla seconda metà degli anni Ottanta, da un sarcoma di Ewing ischio-pubico, secondo la casistica dell’Istituto Rizzoli di Bologna. Un caso clinico dagli sviluppi del tutto anomali, tanto che la mia cartella clinica è stata trafugata e studiata a lungo negli Stati Uniti con citazioni su testi medico-scientifici. Gli ortopedici non riuscivano a spiegarsi come mai il sarcoma non avesse aggredito le parti molli e non si fosse trasformato in metastasi. Il viaggio nel labirinto della malattia è scandito da cure, cartelle cliniche e camerate d’ospedale. Una sofferenza che rende esuli, refrattari, invisibili, ma che non permette di abbassare gli occhi davanti alla quotidianità. Sviluppo quella che la psicologia moderna chiama la “motivazione antagonista”: vale a dire esorcizzare la malattia pensando ad altro, cosa che riesce specie ai bambini per l’inconsapevolezza della gravità del loro stato fisico (Giorgio Chinaglia era sempre il mio eroe che viveva negli Stati Uniti e che giocava al fianco dell’asso Pelé, il più grande calciatore di tutti i tempi). Nel romanzo le riflessioni si alternano alla brutale consapevolezza della gravità della malattia, e soprattutto alla vista delle menomazioni fisiche della maggior parte dei ricoverati. Succedeva che per salvare i bambini dal sarcoma si rendesse necessaria l’amputazione dell’arto, braccia e gambe, fino a creare un reparto di orrori, una specie di scioccante lager. Descrivo la morte di un compagno di camerata di appena dodici anni, aggredito dal male salito ai polmoni e che decede, sdraiato sul letto, a pochi metri da me e da mia madre in un tardo pomeriggio invernale del 1984. Il ritorno di Giorgio Chinaglia, per ricoprire temporaneamente la carica di presidente della Lazio e il commovente incontro con il campione che ha ormai lasciato il calcio giocato, chiudono il cerchio per una riconciliazione, difficile e misterica, con l’infanzia e la malattia, finalmente debellata. L’esperienza vissuta e narrata non viene mai stravolta, seppure rinvigorita da un senso di partecipazione simbolica e memoriale, lungo l’asse portante di archetipi letterari: la nascita e la morte, il dolore, il senso della perdita, gli affetti. La suggestione dell’eroe sportivo “senza macchia e senza paura” diventa una sorta di ingenuo ma efficace appello, di preghiera laica alla “sopravvivenza” ed anche una scaramanzia “urlata” attraverso lo slogan che utilizzava la curva idolatrante con il suo amatissimo campione: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. Sono per la letteratura dell’esperienza, che nel Duemila sembra qualcosa di rivoluzionario e di inesistente come categoria. Esperienza come vita vissuta, arcano di ciò che è accaduto, di ciò che accadrà, di ciò che capiamo e non capiamo in un confine molto sottile. Letteratura come osservazione di sé e degli altri. Non tutto può essere espressione della lingua, all’interno di un romanzo, perché il lettore non lo capirebbe, sentirebbe il peso dell’inesprimibile. I romanzi si giudicano quando si leggono, con la speranza di trovare ancora lo stupore della “vita feriale”. Le letteratura è un avvenimento, non solo un percorso di parole: incanto e disincanto, visibile e toccabile. Non c’è un metodo che prevalga sull’altro perché possa essere sancita una priorità, una giustezza “in presa diretta”. La critica sceglie e il tempo sedimenta, certamente. Qui è lo snodo tra qualità e il mercato. Oggi sembrerebbe imperituro scrivere della morte di un bambino, come ha fatto il grande francese Philippe Forest. Mi ha colpito la frase di Yūko Tsushima che Forest ha messo in esergo al suo splendido romanzo Tutti i bambini tranne uno (Alet 2005) dedicato alla figlia Pauline, morta per un osteosarcoma. “Nel nostro mondo, la morte di un bambino, o un’altra morte altrettanto crudele, è diventata qualcosa che si dimentica nella vita di tutti i giorni, al punto che bisogna ricordarla sotto forma di racconto”.

Alessandro Moscè

CHINAGLIA

 

 

 

 

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