FRANCO CORDELLI: LA SOSTANZA SOTTILE DELLA MORTE

Franco Cordelli non passa mai inosservato, specie se dà alle stampe un romanzo anomalo, una conversazione privata, dinamica tra padre e figlia, un metaracconto diluito in una narrazione plurima tra amori e rêveries, circostanze casuali e pensieri autonomi, da etnologo che interroga l’imperscrutabile e lo affronta con leggerezza e ironia. Una sostanza sottile (Einaudi 2016) contiene una molteplicità di dialoghi secchi, di percezioni sensoriali e uditive, fisiche e psichiche, strette in un familiarità intima, da un luogo all’altro, nell’immobilità di una sedia del bar, tra continue divagazioni nel “miraggio dell’inconscio”, in una profezia della salvezza dopo aver rischiato di non farcela. “I genitori sono solo custodi dei figli che hanno generato”, scrive Cordelli in apertura. Da Avignon a Saint Rémy, a Châteaurenard, Irène invita il padre-scrittore a dare risposte superando l’incubo degli ospedali e di una lunga convalescenza. Questa “sostanza sottile” altro non è che l’anamnesi della malattia, della degenza racchiusa nell’interazione tra medici, infermieri e pazienti. Dal San Filippo di Roma alla Provenza di “sole e vento, silenzio e paura”, seduti sotto la luce bianca, accecante della Francia meridionale (e di converso in città nere e malinconiche), il racconto procede a partire da un sussulto dell’intervistato: “Io non lo nego, è per questo che esistono i romanzi, è per farci notare che i casi universali sono prima di tutto casi personali”. Travalicando griglie e sistemi stilistici, nella sfumatura complessa del libro c’è spazio per citare gli scrittori preferiti come Durrell, o gli artisti come Van Gogh, o il padre dello scrittore direttore di un’agenzia di banca, che amava le donne. E ancora l’urgenza di nominare, di indagare alle scaturigini della scrittura. Che cos’è la poesia se non l’incontro della necessità e del caso, di ciò che sappiamo e di ciò che non sappiamo? Quindi quel malore in casa, la consapevolezza e lo smarrimento inatteso mentre l’uomo si era chinato per spostare la sua vecchia Olivetti. “Ci si accorge perfettamente di ciò che sta succedendo. Ci si accorge ma non è grave, è normale, è la normalità della vita. In un modo o nell’altro si muore sempre all’improvviso”. Roma diventa un finestrone, la meta preferita dei malati della corsia. Ma Roma è anche l’amore, Adele, “venuta dal cielo”, che si allenava nel campo sportivo della Farnesina, magra, con gli occhi quasi bianchi, della quale il protagonista scruta la nudità distesa, “come in un quadro”. Ma è un sogno o è la realtà? Così la morte, o meglio la mortalità. E’ una benedizione, un’illusione, un’occasione? E l’embolia polmonare, che cambiamento ha comportato nelle abitudini e nelle reazioni del sopravvissuto? Sullo sfondo un confine labile, la mise en scène che salda il confronto serrato, i personaggi convocati, la stella polare della dimensione liminare: la morte appunto, della quale non viene subito il dominio. Il desiderio stesso, qualunque desiderio, è l’empito, il filo della “sostanza sottile”. “Si riteneva dunque saggio? Era sfuggito alla morte, se vi era sfuggito (ancora non lo avevano liberato), a causa di un dono che non sapeva di avere?”. Il discorso circolare conduce ad un testa a testa con il destino di finitudine umana davanti al cadavere della madre, ad un volto che sembra felice. “Si può essere felici o infelici nella morte? O per essere precisi, ci si può portare nella morte, vale a dire nel nulla, la felicità che si è avuta nella vita?”. Nella circonvallazione il padre-scrittore la morte l’ha toccata. Tornerà, durerà poco, ma sarà spaventoso. Il San Filippo ha solo offerto un anticipo. La presa di coscienza, inevitabile, fa sì che la morte, per dirla con Orwell, sia sempre accertata come il prezzo della vita, nonostante ogni tentativo di contraffazione, nonostante la paura, “remoto ricordo”.

Alessandro Moscè

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